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 2020  giugno 08 Lunedì calendario

Gli indiani d’America nella Seconda guerra mondiale

«Il nostro motto è: “siamo la divisione dei buoni scalpi”!», tuonò il generale Christopher Vokes, comandante della 2ª Brigata di fanteria canadese arringando sulla nave Circassia gli uomini destinati a sbarcare con gli Alleati in Sicilia per risalire da lì a liberare l’Italia. C’erano fra loro, come tra le truppe della 45ª Divisione degli Stati Uniti, centinaia di pellerossa. Tredicimila circa, contando tutti i fronti dal Pacifico all’Atlantico. Dagli Oijbwa dei Grandi Laghi ai Mohawk (il Popolo della pietra focaia) originari tra il Nord dello stato di New York e il Quebec, dai Cree dell’Alberta ai Creek (meglio chiamarli Muscogee) dell’Alabama e della Georgia, dai Cheyenne delle Grandi Pianure ai Comanches dell’Oklahoma...
«Buona fortuna e buoni scalpi a tutti voi!», chiuse il generale Vokes dopo avere incitato le truppe («Siamo uomini liberi, in lotta per una giusta causa; quindi siamo invincibili») a «non fare prigionieri fino a che non sarà nostra prerogativa essere clementi». Un grido di guerra che, scrive Matteo Incerti nel libro I pellerossa che liberarono l’Italia (Corsiero editore, da domani in libreria) lasciò agli indiani l’amaro in bocca. Un po’ perché la ferocia delle scotennature imputate ai pellerossa è un tema controverso almeno dai tempi in cui il colonnello John Chivington sterminò sul fiume Sand Creek donne, vecchi e bambini («le uova di pidocchi diventano pidocchi») sventolando al ritorno a Denver gli scalpi e i velli pubici di decine e decine di poveretti e poverette. Una tesi confermata dagli storici: il traffico di scalpi venne avviato dai coloni bianchi. Ma urticante, all’orecchio degli indiani, anche per quelle parole sugli uomini liberi.
Non erano liberi, i pellerossa. Neppure di votare senza rinnegare l’appartenenza etnica. Neppure di godere di tutti i diritti civili. Neppure di entrare in un locale e chiedere una birra. Lo ricorda Fred Gaffen nel saggioForgotten Soldiers: «Il maggiore Stone si avvicinò a Joseph Flavien St. Germain. Lo volle ringraziare per essersi gettato nella mischia seppure fosse appena reduce da una lunga convalescenza. “Sei un vero combattente, hai grande coraggio”. “La ringrazio maggiore. Ma prima che questa guerra sia finita spero di morire”. Stone lo guardò attonito. “Cosa dici, ragazzo!” “Maggiore, qui tutti mi chiamano ‘Il Santo’, ma quando tutto finirà, quando torneremo a casa, sarò di nuovo un cittadino di seconda classe. Sarò di nuovo quello che voi chiamate un dannato indiano, non potrò nemmeno entrare in un bar…».
Figlio d’un cercatore d’oro d’origine francese, Adolphus, e di una indiana cree, Nancy, Joseph St. Germain era nato nel villaggio di Peace River, sul fiume omonimo, negli spazi immensi dell’Alberta, ma quel «dannato indiano» fu un vero eroe dell’Italia. Vestita la divisa canadese per sottrarsi almeno un po’ al razzismo contro i pellerossa e mandare a casa qualche soldo in più di quanto guadagnasse come tagliaboschi, fu il primo a varcare la Linea Gotica verso nord. Ferito più volte, colpito dalla malaria, sempre in prima linea, morì proprio come aveva immaginato nell’amarissimo sfogo col maggiore. Dilaniato da una granata a Villanova di Bagnocavallo. È sepolto a Cesena. A pochi passi, c’è la tomba di Huron Brant, ucciso dai nazisti sulla via Emilia a Gambettola e morto senza poter tornare dalla moglie Irene a mostrarle una foto. Quella in cui il generale Montgomery in persona l’aveva decorato con la medaglia al valore per l’impresa temeraria compiuta nel luglio ’43 a Grammichele. Dove il mohawk era riuscito, da solo, ad aggirare una postazione tedesca che mitragliava i canadesi, a sorprendere tutti e a tornare indietro con trenta soldati germanici prigionieri, testa bassa, mani in alto. 
Anche il primo di quei ragazzi che morì in Italia, pochi giorni dopo esser sbarcato a Pachino, terra di luce, pomodori, Fenici e Bizantini, arrivava dal Canada settentrionale. Si chiamava Charles Leon, era nato a Salmon Arm, sul bellissimo lago Shuswap tra Calgary e Vancouver. Aveva 21 anni, apparteneva ai Secpwepmec, e venne ammazzato nelle campagne di Leonforte, una ventina di chilometri da Enna, assieme a un altro pellerossa della British Columbia, Nicholas Toby. Sangue e sudore. Era 21 luglio 1943. Una giornata di sole furibondo. Insopportabile per i ragazzi cresciuti tra le conifere ammantate di neve. Furono almeno cinquantuno, se non di più, i giovani pellerossa morti per buttar fuori i fascisti e nazisti dall’Italia. Alcuni si erano guadagnati i gradi di sottufficiali, perlopiù erano soldati semplici. Rispettosi della disciplina, a dispetto degli stereotipi, al punto di tirarsi addosso come il nostro Charles Leon la fama opposta, annotata al centro reclute di Calgary: «Obbedirà a ogni ordine». 
Dodici riposano nel camposanto del fiume Moro a Ortona, diciassette nei tre cimiteri di guerra in Romagna, dodici in quello di Cassino... Tra quelli sopravvissuti e tornati a casa nelle loro terre, alcuni sarebbero stati fotografati in divisa, orgogliosi delle medaglie sul petto. Come l’Oijbwa Tommy Prince da Winnipeg, provincia di Manitoba, della tribù delle «Teste Rotte», che dopo essere sbarcato ad Anzio seminò coi suoi Diavoli Neri il panico tra i tedeschi nelle paludi pontine muovendosi silenziosissimo la notte coi mocassini e la faccia nera di cenere e fu premiato addirittura da Re Giorgio a Westminster. O Ernest Aquila Rossa Childers, medaglia al valore per come si comportò nella battaglia di Orvieto. O Jack Montgomery, che fu ricevuto da Franklin D. Roosevelt alla Casa Bianca: «Si avvicini Montgomery, lei ha un cognome famoso. È un Cherokee, ho letto. Siete grandi guerrieri. Quelli che si meritavano di prendere sul muso Hitler e Mussolini». 
Spicca però, nel libro di Matteo Incerti (ribattezzato dai pellerossa riconoscenti «Aquila Svettante») la storia di altri due indiani d’Italia, sbarcati stavolta in Normandia. Si chiamavano Jack e James Rossetti, appartenevano al popolo nak’azdli ed erano nati a Fort James, sul lago Stuart, ancora nel British Columbia, un migliaio di chilometri sopra Vancouver. Erano figli di un siciliano, Samuele «Sam» Rossetti, nato a Palermo nel 1878. Come finì lassù? «Cercava l’oro», racconteranno, «Arrivò e si innamorò di nostra madre Caroline. Era discendente diretta del Grande Capo Kwah. Lei, che era già madre di una bambina, scelse nostro padre e per questo fu messa ai margini della tribù». Un esilio doloroso. Ma destinato ad essere riassorbito. Alla fine, ricordano i nipoti, i due vennero accettati. Anzi, Samuele aprì una miniera tutta sua. E cercò di insegnare un po’ di italo-siculo ai pellirossa stessi. L’aveva già fatto un altro italiano, Giacomo Beltrami, che per primo arrivò alle sorgenti del Mississippi e compose il primo dizionario English-Sioux. Era di Bergamo. Svezzato in lingua bergamasca non aveva paura di niente. Ma questa è un’altra storia...