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 2020  giugno 07 Domenica calendario

Perché se il cibo è meno caro rischia di aumentare la fame nel mondo?

Il cibo è abbondante e sempre più economico a livello internazionale, ma il carrello della spesa rincara e la fame rischia di colpire altri milioni di persone nel mondo. È l’ennesimo paradosso dell’epoca del coronavirus, che ha sconvolto non solo i nostri stili di vita, ma l’intero sistema economico globale, creando squilibri e inefficienze mai sperimentati in precedenza.Il Food Price Index della Fao, che riflette i prezzi dei generi alimentari, a prima vista lascia perplessi: a maggio – secondo l’ultimo aggiornamento, pubblicato ieri – è sceso ancora, per il quarto mese consecutivo, e a 162,5 punti è al livello più basso da dicembre 2018, in ribasso dell’1,9% da aprile e dell’11,2% da gennaio, quando il virus non aveva ancora varcato i confini della Cina.
La pandemia ha sconvolto le supply chain e minaccia di far marcire i raccolti per mancanza di braccianti agricoli, mal’indice Fao rileva prezzi in continua discesa per i cereali come per i latticini , per le carni come per gli oli vegetali. Solo lo zucchero rincara su base mensile, ma ad aprile era ai minimi da 13 anni.
La leggendaria casalinga di Voghera penserebbe di trovarsi di fronte a un termometro guasto. Gli alimentari sono l’unica voce dell’inflazione che è salita ovunque durante la pandemia. Negli Stati Uniti addirittura ha registrato il balzo più consistente dal 1974 ad aprile (+2,6% mesile, a fronte di un ribasso complessivo dei prezzi al consumo dello 0,8%).

Il rischio di una tragedia umanitaria
La tendenza non riguarda soltanto le economie sviluppate. E nelle regioni più povere del mondo rischia di sfociare in una tragedia umanitaria. Secondo il World Food Programme (Wfp), un’altra agenzia dell’Onu, la crisi provocata dal coronavirus potrebbe raddoppiare il numero di persone in condizioni di insicurezza alimentare, a 265 milioni.
Il cibo in teoria non manca, ma per molti è scarsamente accessibile, osserva Martien van Nieuwkoop, responsabile per l’Agricoltura e il cibo della Banca mondiale: «Vediamo aumentare la fame in un mondo dove c’è abbondanza, i mercati agricoli sono ben riforniti e relativamente stabili». L’istituzione internazionale teme che la crisi provocata dal Covid-19 possa ridurre 60 milioni di individui in condizioni di povertà estrema, costretti cioè a vivere con meno di 1,90 dollari al giorno.

L’appello di maggio
La stessa Fao a metà maggio aveva lanciato un appello per raccogliere 350 milioni di dollari per rafforzare la lotta contro la fame: «Il pieno impatto della pandemia sulla sicurezza alimentare nel lungo termine deve ancora manifestarsi, ma è provato che nei Paesi già colpiti in modo acuto dalla fame la gente fatica sempre di più a procurarsi il ciboperché le entrate crollano e i prezzi alimentari salgono».
Sono le caratteristiche del Food Price Index a spiegare l’apparente contraddizione. La complessa metodologia di calcolo dell’indice tiene conto di 73 serie di prezzi relative a 23 commodities, ma nonostante l’impiego di fattori di ponderazione si tratta pur sempre di valori a livello internazionale, che non riescono a riflettere quello che accade a valle della filiera: sugli scaffali dei supermarket, nei piccoli empori di paese o nei mercati polverosi dell’Africa. E il Covid-19 ha innescato fenomeni complessi da decifrare, oltre che da contrastare.

Reazioni a catena
I prezzi al dettaglio salgono soprattutto a causa del caos nella logistica e della carenza di manodopera nei campi. Ma i prodotti agricoli all’origine risentono di numerosi fattori ribassisti, anch’essi scatenati dal coronavirus, molti dei quali hanno a che fare con l’energia.
Il crollo dei consumi di benzina e diesel – addirittura più che dimezzati al picco del lockdown – ha tolto di mezzo una grossa fetta della domanda di mais, canna da zucchero e oli vegetali, utilizzati per i biocombustibili. Negli Usa un terzo del raccolto di mais (che quest’anno è da primato) di solito serve a distillare etanolo, ma ad aprile l’impiego in questo settore è diminuito del 40% secondo l’Usda.
Anche l’uso di cereali e soia per i mangimi animali ha subito una contrazione per colpa della pandemia: la chiusura dei ristoranti ha colpito le vendite di carni e molti macelli hanno sospeso l’attività in seguito a contagi tra il personale (di nuovo soprattutto negli Usa). Il crollo dei prezzi di petrolio e gas si è tradotto inoltre in una diminuzione dei costi produttivi nel settore agricolo: i fertilizzanti ad esempio costano meno.
La pandemia aveva anche scatenato politiche protezioniste in alcuni Paesi esportatori, che temevano carenze di cibo. Ma per fortuna le misure sono state attenuate, sgombrando il campo da un fattore che avrebbe potuto provocare tensioni sui prezzi e aggravare il rischio di crisi alimentari.