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 2020  giugno 07 Domenica calendario

Gi stadi di Italia 90

Trenta giorni dalla cerimonia di apertura a San Siro – trent’anni fa, 8 giugno 1990 – alla finale fra Germania Ovest e Argentina all’Olimpico: Italia 90 nella memoria collettiva è tutto lì. Ma in quella dello Stato, delle sue casse e delle sue infrastrutture, l’alfa e l’omega rispettano cronologie diverse: il Mondiale delle notti magiche, infatti, si è chiuso cinque anni fa.
Non con i fuochi d’artificio ma con una voce nel Bilancio di Previsione 2015, sufficientemente criptica per chi non conosce la materia. A giustificare la cifra – 61,2 milioni di euro – compariva la dicitura “mutui relativi ad interventi di cui alla Legge n. 65/1987 e successive modificazioni ed integrazioni”. Legge 65/1987, ovvero “misure urgenti per la costruzione o l’ammodernamento di impianti sportivi”: ecco il fondo dell’abissale pozzo di Italia 90. 3.500 miliardi di lire stanziati, 7.200 quelli effettivamente spesi (circa 9 miliardi di euro, considerata la rivalutazione Istat), il tutto per dotare l’Italia di stadi all’avanguardia.
Trent’anni dopo, un panorama desolante sigilla la scarsa lungimiranza di chi all’epoca progettò gli impianti e l’apicale spreco di risorse tipico di quella stagione politica. Dodici città per altrettanti stadi: oggi, tra demolizioni, obsolescenza e costosi risanamenti, ciò che resta sono i segni tangibili di modelli strutturali e urbani nati già vecchi e senza futuro. In questo senso il confronto con le politiche strutturali del Regno Unito per gli stadi di Euro 1996, stesso periodo storico ma modello opposto, è impietoso. I due impianti costruiti ex novo per Italia 90 rappresentano il paradigma dell’errore: per realizzare lo stadio Delle Alpi di Torino vennero spesi 226 miliardi di lire, e oggi di quell’impianto – chiuso nel 2006 e demolito nel 2009 – restano appena alcuni elementi di base sui quali nel 2011 è sorto lo Juventus Stadium, di concezione opposta a quella progettata a suo tempo dallo studio Hutter. Pista d’atletica sostanzialmente inutilizzata, tribune lontanissime dal campo: che non fosse uno stadio adatto al calcio era chiaro già in fase di costruzione (e dire che, nella progettazione, si pensò anche alla versione senza pista). Poi, certo: l’estetica esterna era, oggettivamente, immaginifica. Un’astronave, un po’ come il San Nicola di Bari griffato da Renzo Piano, caratterizzato da 24 spicchi in teflon a coprire le tribune. Ebbene: più di metà di quei petali, semplicemente, non ci sono più, e chi atterra a Bari Palese volando da nord può scorgere, dall’alto, una struttura che oggi ha del grottesco. Manutenzioni e piani di ristrutturazione sono da anni sui tavoli del capoluogo pugliese, ma i costi probabilmente non valgono l’investimento.
Dalla Puglia al Friuli, ecco Udine, un altro stadio che non esiste più. O, meglio, della struttura di Italia 90 (che allora aveva vent’anni ed era stata oggetto di minime migliorie) mantiene solamente la tribuna lato ovest: demolito per tre–quarti, privato della pista d’atletica, dal 2016 è diventato Dacia Arena, ed è un altro mondo. A Cagliari, invece, si gioca nel parcheggio del Sant’Elia. Può far sorridere, ma è così, perché l’effi- mera prefabbricata Sardegna Arena è stata costruita proprio in quell’area, accanto al gigante demolito solo a pezzetti, perché pure abbattere costa.
Roma e Lazio, se potessero, se ne andrebbero dall’Olimpico, che pure non ha reali problemi di tipo strutturale, ma è di proprietà del Coni non è adatto al business. Rispetto alla spesa prevista per il corposo rifacimento per i Mondiali, il costo finale lievitò del 181% (non fu un record: a Torino si era registrato un +200%), mentre a Napoli ormai si è perso il conto degli interventi necessari per il risanamento e il consolidamento del San Paolo, gli ultimi per le scorse Universiadi. E che dire di Firenze e Bologna? D’accordo che l’Italia è il paese del sole, ma entrambi nel 1990 vennero ristrutturati mantenendo solo la copertura della tribuna centrale, e da tempo nelle città si pensa ad altro: intervenire pesantemente su ciò che c’è (il Dall’Ara, dove la capienza è ridotta rispetto al 1990), abbandonarlo per costruirne un altro altrove (il Franchi).
Il Barbera di Palermo e il Bentegodi di Verona, di concezioni ormai passate, sono sovradimensionati e inutilmente costosi rispetto alle reali necessità dei club cittadini. Un fiore nel deserto di scelte folli fu invece la ristrutturazione, firmata da Gregotti, che per Italia 90 rimodulò il Ferraris di Genova – il più british di tutti – pur nella difficoltà di una struttura immersa in un contesto fortemente abitato in una città dalle caratteristiche geografiche molto peculiari. Resta San Siro, appunto lo stadio in cui si aprirono quei Mondiali, fornito nel 1990 di terzo anello e copertura che, a dire il vero, hanno creato un microclima deleterio per il prato. Acqua fresca, rispetto ai guai di altri stadi, non a caso il Meazza ha cinque stelle nella classificazione della Uefa. Eppure sarà abbattuto: Milan e Inter hanno in mente altro. Del resto, il popolo Pantalone ha già pagato tutto. Sino all’altro ieri, non solo trent’anni fa.