Il Messaggero, 7 giugno 2020
Storia dell’immigrazione negli Usa
Ci voleva una giornalista di origine asiatica, (madre microbiologa di Taiwan, padre di Shangai), per ricostruire la storia delle leggi sull’immigrazione, restituendone tutti i passaggi attraverso i dibattiti parlamentari, coi loro trabocchetti, gli scontri all’ultimo sangue, i cambiamenti di fronte e il bagno nella retorica nazionale. Vice direttore nazionale del New York Times, Jia Lynn Yang confessa di essere inciampata per caso nell’Immigration and Naturalization Act un giorno che, trovandosi a Austin, per un ritardo aereo decise di passare alla Lindon Johnson Library. Ma tutto lascia pensare che non ci fosse nulla di casuale in quell’inciampo, visto che senza la legge del 1965 non sarebbe mai diventata americana, e forse non avrebbe mai scritto un libro per capire come era stato possibile diventarlo.
GLI ALBORI
La storia è semplice, ma sembra un romanzo d’appendice. Inizia a metà degli anni Venti, quando l’America scoprendosi razzista e antisemita, per tutelare l’identità Wasp, bianca anglosassone e protestante, rovescia i tradizionali principi di apertura agli immigrati adottando un sistema di quote etniche così severo da ridurre l’immigrazione dall’Europa del Sud e dell’Est, mettere al bando quella asiatica, deteriorare i rapporti col Giappone, e mandare in visibilio un certo Adolf Hitler, detenuto in carcere per il mancato putsch di Monaco. L’immigrazione diminuisce del 58 per cento, ma ci vorranno quarant’anni, un’altra guerra mondiale, la liberazione dell’Europa dal nazifascismo, lo sterminio degli ebrei e svariate vicissitudini politiche per smantellare le quote razziali con una nuova legge che trascende la razza e l’origine etnica, aprendo le porte dell’America a chiunque, al di là dell’origine e del nome che porta, sogni il paese della libertà.
PROTAGONISTI
Questo romanzo della politica americana pullula di personaggi improbabili, che vengono restituiti nei momenti topici. C’è l’outsider del Sud rurale, cresciuto da un membro della setta cristiana che credeva nel ritorno di Gesù a Gerusalemme, è Lyndon Johnson. Nel 37 vince un seggio al Congresso con l’aiuto di un ricco ebreo polacco e si attiva per far ottenere il visto a tanti ebrei in fuga dall’Anschluss come il musicista Erich Leinsdorf che trent’anni dopo sarà al suo fianco per festeggiare la nuova legge. C’è Pat Mc Carran, l’orfanello del Nevada, strappato al gregge e destinato a diventare il senatore che nel 1952 farà il diavolo a quattro per sabotare l’abolizione delle quote, annullando il veto presidenziale. E dunque c’è Harry Truman, il bravo figlio del Missouri, la cui madre era stata deportata durante la guerra civile. Per 11 anni lavora in campagna, si appassiona agli eroi di Carlyle, parte volontario nella Grande guerra, torna, viene eletto giudice, poi senatore, diventa il vice del presidente Roosevelt, nel 1945 gli succede e per primo, in nome della liberazione dal nazismo e dell’anticomunismo, si batte contro le quote, per garantire libertà d’asilo alle centinaia di migliaia di sopravvissuti allo sterminio nazista.
Ci sono i figli di ebrei tedeschi di antica immigrazione come Mannie Celler, che siede in Parlamento sin dal 1924, battendosi in prima linea contro le quote fino al trionfo del 1965, o come il paria della finanza ebraica Herbert Lehman, che finirà travolto dalla sua scarsa propensione al compromesso. E c’è naturalmente il bramino irlandese, alias Jack Fitzgerald Kennedy, deputato a 29 anni, senatore a 36, presidente a 43, impegnato in prima linea a cancellare l’eredità del padre Joe, antisemita notorio, e l’amicizia per il senatore Joseph Mac Carthy, promotore dell’isteria anticomunista, sarà pronto ad attaccare la legge del 1952, che lui stesso aveva approvato, pur di conquistare il voto dei liberal. Insomma, un libro chiave e molto tempestivo per capire la politica americana e l’America di oggi, in crisi per le scelte sull’immigrazione e sull’orlo dell’esplosione razziale.