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 2020  giugno 07 Domenica calendario

Coscienti di aver capito poco

La mia ipotesi preferita sulla funzione della coscienza l’ha formulata lo psicologo evoluzionista Nicholas Humphrey, secondo il quale possedere una coscienza accrescerebbe la nostra auto-valorizzazione metafisica, insomma servirebbe a dare un’importanza grandiosa ed esagerata a noi stessi e alle nostre vite transeunti, favorendo con ciò sopravvivenza e riproduzione. Naturalmente questa è una spiegazione che riguarda le cause ultime, la funzione in senso biologico ed evoluzionistico. 
Il problema della coscienza può essere formulato anche dal punto di vista delle cause prossime: se riteniamo che la nostra vita mentale sia il risultato di processi di elaborazione delle informazioni che hanno luogo in un sistema fisico-chimico (qual è il cervello), cosa deve avere questo sistema perché possa dire di sé stesso di essere cosciente? Il neuroscienziato Michael Graziano, professore al Dipartimento di Psicologia della Princeton University, ha articolato una teoria che ha l’ambizione di fornire una risposta a questa domanda. 
Le risorse di cui dispone il cervello per elaborare le informazioni sono limitate, perciò devono essere indirizzate su alcuni segnali soltanto, con un processo selettivo che chiamiamo attenzione. Graziano distingue tra un’attività del cervello in cui il controllo dell’attenzione è palese, come quando dirigiamo il capo o gli occhi verso un bersaglio, e una in cui l’attenzione è nascosta, e si muove, senza che nulla di tangibile si sposti realmente, tra i prodotti interni della nostra vita mentale quali i ricordi e le idee.
Solo le creature capaci di attenzione nascosta sarebbero dotate di una coscienza. Questo perché il cervello elaborerebbe uno schema interno, che Graziano chiama «schema di attenzione», per consentire a un sistema di controllo di operare sull’attenzione nascosta. 
Il cervello elabora continuamente schemi interni. Un esempio familiare a tutti è quello dello schema corporeo, che tiene conto in ogni istante della posizione del corpo e delle sue diverse parti, come le braccia e le gambe, per poterne controllare i movimenti. Per un sistema di controllo è infatti essenziale poter disporre di un modello di ciò che deve essere controllato. L’idea di Graziano è che tra i vari schemi interni del cervello ve ne sia uno che rappresenta non già la posizione e i movimenti degli arti, ma, per così dire, la posizione e i movimenti dell’attenzione mentre si dirige sulle rappresentazioni di percetti, memorie e idee. L’esperienza soggettiva secondo Graziano dipenderebbe dall’accesso a questo modello interno di attenzione. Così quando qualcuno vede una mela, oltre agli aspetti di rilevazione sensoriale e di eventuale risposta motoria allo stimolo, schemi interni che come sappiamo possono svolgersi anche senza alcun accompagnamento consapevole, vi sarebbe un’esperienza soggettiva della mela che si identifica con la rappresentazione del nostro fuoco di attenzione sulla mela. Per ragioni di efficienza, il modello interno fornito dallo schema di attenzione è molto semplificato quanto ai suoi contenuti, non descrive cioè i dettagli dei meccanismi neuronali associati all’operare dell’attenzione, ma fornisce invece una sorta di caricatura degli stessi, che incarnerebbe l’illusione della nostra esperienza. 
Il parallelo con lo schema corporeo può aiutare a capire meglio l’ipotesi. Sia lo schema corporeo sia lo schema di attenzione sono, in quanto modelli, delle approssimazioni, delle semplificazioni e possono condurre a errori. Ad esempio, se per qualche ragione un arto viene perduto, la rappresentazione incamerata nello schema corporeo può far sì che la persona ne avverta ancora la presenza, nella forma del cosiddetto «arto fantasma». Per Graziano l’arto illusorio è il fantasma dello schema corporeo così come la coscienza è il fantasma dello schema di attenzione.
Cosa non persuade in questa ipotesi è facile da mettere in evidenza. Non si capisce in quale modo la caricatura dello schema di attenzione venga generata né come possa identificarsi con le proprietà che riconosciamo alla nostra esperienza consapevole. Ci viene solo detto che la caricatura è l’esperienza. Ma il dubbio è che qui venga evocata una trasformazione magica: qualcosa diventa oggetto dello schema di attenzione e quindi diventa cosciente. Avremmo bisogno di capire come questo miracolo si possa compiere. Anche perché le metafore che accompagnano l’ipotesi di Graziano implicano quel genere di attività che è proprio degli agenti intenzionali, e che la teoria dovrebbe spiegare non assumere. Invece leggiamo che «la macchina accede al proprio schema di attenzione» (pag. 106). Accede? Ma come fa? O, nella stessa pagina, che «è informata del fatto di contenere le proprietà della coscienza interna, una proprietà privata, elusiva». Ma queste proprietà da dove arrivano? Se lo schema di attenzione ne è informato significa che sono state generate altrove?
Meno difficoltà pone l’idea che l’attribuzione di consapevolezza ad altri individui possa essere associata a un ruolo speciale dell’attenzione, in particolare di quella palese. Graziano descrive un interessante esperimento che mostra come noi concepiamo l’attenzione come una specie di faro, il cui fascio luminoso fuoriesce dagli individui coscienti dirigendosi verso l’esterno. I soggetti dell’esperimento osservavano un cilindro collocato in posizione verticale e dovevano poi modificare l’inclinazione di un cursore per stimare l’angolo critico raggiunto il quale il cilindro sarebbe caduto. Quando durante la presentazione compariva un volto orientato in modo tale che sembrasse fissare lo sguardo sul cursore, la stima dei soggetti ne risultava influenzata come se dagli occhi emanasse un fascio di energia che sospingeva il cursore, richiedendo quindi una valutazione maggiorata dell’inclinazione necessaria alla caduta (lo stesso non accadeva se il volto aveva gli occhi coperti o se lo sguardo appariva diretto altrove). L’idea che gli oggetti sono veduti da raggi di luce che fuoriescono dagli occhi fu sostenuta da Tolomeo e Galeno, e pare riflettere un’intuizione psicologicamente primitiva, che ha le sue radici nelle nostre predisposizioni alla vita sociale. La teoria «emissionista» iniziò a essere messa in discussione più tardi dai grandi medici arabi, come Al-Razi e Al-Haythan, che osservarono come l’occhio (la pupilla) venisse ferito da una forte luce, e ipotizzarono che fosse la luce a colpire l’occhio e non viceversa.
Il problema, però, è che provare che l’attenzione, valutata ad esempio dalla direzione dello sguardo, influenzi in maniera cruciale l’attribuzione agli altri di uno stato mentale di consapevolezza (costui «vuole», «spera», o, come osserva Hannibal Lecter, «desidera») è cosa diversa dal provare un suo ruolo causale nella coscienza. Anche se spesso si accompagnano l’una con l’altra, pare ben attestato dalla ricerca empirica che attenzione e coscienza non si identificano. L’attenzione è possibile in assenza di coscienza e la coscienza in assenza di attenzione. Ci sono prove, ad esempio, che l’attenzione focale non sia necessaria per riconoscere in modo consapevole la presenza di certi oggetti (come gli animali) in brevissime presentazioni di scene naturali. 
Una definizione icastica della coscienza è stata proposta nel 1989 dallo psicologo sperimentale Stuart Sutherland. Recita così: «La coscienza è un fenomeno affascinante ma elusivo; è impossibile specificare cos’è, cosa fa o perché si è evoluta. Non è stato scritto, al riguardo, nulla che valga la pena di essere letto». Considerato che sono trascorsi trent’anni dalle parole sferzanti di Sutherland vien da chiedersi se nel frattempo sia stato prodotto qualcosa che valga la pena di essere letto. Io penso che il libro di Graziano valga la pena di essere letto. Tuttavia bisogna riconoscere che se dei progressi son stati fatti questi hanno più a che vedere con il perché attribuiamo coscienza a noi stessi e a altre entità, che con il modo in cui la coscienza viene effettivamente generata.