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 2020  giugno 07 Domenica calendario

I giovani iraniani si rifugiano nell’arte

Quando illustra le opere esposte nel suo spazio, la Aaran Gallery, il volto di Nazila Noebashari si illumina. «Teheran ha fame di arte. Soltanto negli ultimi due mesi ho visto nascere 10 gallerie. Non si tratta di una questione solo commerciale, anzi. Qui la gente nutre un grande amore per l’arte. I caffè e le piccole gallerie sono luoghi di ritrovo, dove si confrontano e sono esposti gli artisti giovani e quelli meno noti». 
Era il 23 febbraio, due giorni prima una controversa elezione parlamentare aveva sancito il trionfo dei conservatori e degli oltranzisti, lasciando presagire per gli iraniani mesi ancor più difficili. Al pari dell’Italia, l’epidemia di Coronavirus aveva appena fatto le sue prime vittime ufficiali. Non si poteva certo immaginare che in meno di 48 ore sarebbero stati fermati molti voli e che nei giorni successivi il virus sarebbe esploso con tale violenza da trasformare l’Iran nel terzo focolaio del mondo. 
Nello stesso giorno, a Teheran nord, la parte ricca della capitale, Hormoz Hematian stava ultimando i preparativi per l’ultima personale esposta nel suo spazio, la Dastan Gallery: le suggestive opere dei Ghasemi, tre fratelli che dipingono insieme le stesse grandi tele in un modo innovativo, con risultati davvero interessanti. Rientrato in Iran dopo un master in Ingegneria civile alla British Columbia, Hormoz, 35 anni, ha creato nel 2012 la Dastan, oggi una delle gallerie più dinamiche di Teheran. «In Iran vi sono circa 500 gallerie d’arte», ci spiegava. «Almeno la metà sono qui nella capitale. È una sorta di comunità nata intorno alla più grande conquista della mente: l’arte. In pratica ogni fine settimana vi sono inaugurazioni e vernissage. Certo, durante le guerra contro l’Iraq (1980-1988) o in altri periodi molto difficili, l’arte iraniana non ha potuto esprimersi, ma è come se avesse atteso il momento propizio per riemergere in modo potente e innovativo».
Al pari degli altri galleristi, dei registi, degli imprenditori di teatro, anche per Hormoz la pandemia di Covid-19 è stata un colpo molto duro. Ma Teheran sta reagendo. Forse non esiste città nel Medio Oriente che possa vantare un’attività artistica tanto fervida, un pubblico così partecipe, un universo di gallerie tanto vivace, capace di adattarsi quasi ad ogni situazione. Davanti alle chiusure e alle restrizioni, davanti al terrore di contrarre il virus, le gallerie d’arte hanno così saputo reinventarsi, puntando sulle tecnologie digitali; Instagram, social media, skype, piattaforme digitali, laboratori. Ufficialmente le gallerie sono state riaperte il 20 aprile, ma la paura è ancora tanta. «Abbiamo subito virato sul digitale – precisa Hormoz al telefono da Teheran –. In questo momento la nostra galleria si può visitare solo su appuntamento, poche persone alla volta. Ma sul digitale siamo in grado di fare di tutto. Organizziamo mostre, in questi giorni ne abbiamo anche due all’estero, inaugurazioni, spazi digitali dove si confrontano gli artisti. Abbiamo venduto con successo dei quadri tramite tecnologie digitali».
Arte contemporanea nella Repubblica islamica dell’Iran e tecnologie digitali. Non è un connubio improprio, un paradosso. Agli occhi dei giovani iraniani (più della metà della popolazione ha meno di 30 anni) la rete e i social media sono sempre stati un punto di forza per bypassare le restrizioni alla vita sociale imposte dal regime. D’altronde Teheran è una pentola a pressione. Esploderebbe, se non la si lasciasse sfiatare. Il regime lo ha compreso. E ha fatto suo quel pragmatismo persiano che permette, entro certo limiti, la convivenza di stili di vita apparentemente inconciliabili. 
In una metropoli dove la vita notturna è comunque limitata, e gli alcolici banditi, l’arte diviene dunque una via di fuga. Che si manifesta in diversi settori. Da spettacoli teatrali sperimentali, come quello a cui assistiamo in un piccolo caffè, creato, prodotto e recitato da Saman Arastoo, attore e regista transgender, che ha scelto di diventare uomo (in Iran le operazioni per cambiare sesso sono legali). O come i grandi murales che ricoprono facciate di edifici e si susseguono sui muri che costeggiano le vie. La street art di Teheran è viva, in costante mutamento. Non stupisce che il progetto «Urban Art Unites», voluto dall’ambasciatore italiano Giuseppe Perrone, abbia riscosso un grande successo. L’idea è accattivante: ogni due mesi far lavorare, fianco a fianco, due street artists, uno italiano e uno iraniano. I quali poi esporranno le loro grandi tele sulla facciata esterna della Residenza dell’Ambasciatore. Inaugurato il 26 settembre, il progetto è stato sospeso alla terza esibizione. Ma riprenderà non appena le condizioni sanitarie lo permetteranno.
«Pensavo che con la pandemia sarebbe stato un disastro, invece abbiamo lavorato. Abbiamo venduto. Il digitale ha ampliato le conoscenze, ha aperto nuove prospettive», precisa Nazila. «Certo, lavorare come artista non è facile – ci spiegava il pittore Mehdi Farhadian, esposto alla Aaran Gallery -. Ma quando hai dei limiti la spinta creativa diviene più attiva. Le contraddizioni sono uno stimolo. Qui non ci sono ritrovi pubblici né vita notturna. Sono le gallerie il nostro punto di incontro e confronto».
Pur tra molte difficoltà, dai galleristi agli artisti, fino agli editori, sono tutti convinti che le potenzialità di questo settore siano inespresse. «Nel mondo il mercato dell’arte si aggira sui 60 miliardi di dollari. Quello iraniano, stimato sui dati disponibili e relativi alle aste di Teheran, non supera i 30 milioni. È destinato a esplodere», spiegava Hormoz, precisando che la sua galleria partecipa anche a 10 eventi internazionali l’anno. 
In questa metropoli Hamidreza Pejman, un intraprendente businessman consacratosi all’arte, ha realizzato l’Argo factory, un suggestivo museo privato d’arte contemporanea ricavato dal restauro di una vecchia e fatiscente fabbrica di birra abbandonata nel centro di Teheran, in cui si aggiravano senza tetto ed eroinomani. La prima esibizione fu quella dell’artista franco algerino Neil Belourfe. «Abbiamo riaperto da pochi giorni», spiega Mr Pejman al telefono. «Per ora 10 visitatori ogni 30 minuti, protetti da mascherine e guanti. La mia è una missione; far conoscere e apprezzare nel mondo la nostra arte contemporanea». Anche l’instancabile Pejman ha sfruttato l’oppurtunità del digitale. «Ci siamo buttati subito sul digitale e sul 3d: ogni settimana una mostra di video arte. Oltre a piattaforme e veri “studi virtuali”. Senza muoversi, per esempio, artisti da Londra possono lavorare in questi spazi digitali su progetti di animazione». 
In una metropoli dove, a fini speculativi, i vecchi edifici vengono abbattuti per far largo a palazzi di 20 piani, Argo è un successo. Ed è curioso che sia stato approvato proprio il restauro di un’antica birreria in un Paese dove il consumo di alcool è bandito. Ma in qualche modo anche il pragmatismo persiano è una forma d’arte.