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 2020  giugno 07 Domenica calendario

Il cervello e lo sviluppo della sua visione

Ratti vanno al cinema per migliorare gli algoritmi di intelligenza artificiale. Una ricerca condotta alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (Sissa) di Trieste ha chiarito, facendo vedere a dei ratti neonati alcuni film, un processo di formazione delle cellule cerebrali sul quale gli scienziati si interrogavano da oltre 50 anni, e che potrebbe anche potenziare le tecniche di  machine learning
L’esperimento è stato condotto da Davide Zoccolan, direttore del Laboratorio di neuroscienze visive alla Sissa, che, assieme a Giulio Matteucci, ha sottoposto diciotto roditori, di età compresa fra 14 e 60 giorni, alla visione di sedici diversi filmati, lunghi da pochi minuti fino a mezz’ora, riguardanti scene naturali o paesaggi urbani. La proiezione è avvenuta in un ambiente totalmente immersivo con schermi Lcd sui quattro lati di una piccola stanza, permettendo così agli animali di essere totalmente circondati dalle immagini. 
I cortometraggi erano di due categorie: un primo gruppo comprendeva “storie” normali, ossia che seguivano uno svolgimento temporale corretto. Nel secondo caso, al contrario, le diverse immagini dei video si susseguivano senza alcuna connessione logica, ossia i frame erano stati mescolati tra loro. I film normali sono stati visti da 8 ratti, mentre altri 10 animali sono stati “nutriti” unicamente con le storie sconnesse. 
Dopo sette settimane i due ricercatori, con una tecnica rispettosa della salute dei roditori, hanno scoperto che le aree cerebrali deputate alla visione si erano sviluppate nei due gruppi in maniera diversa. In particolare, spiega Zoccolan, «le cellule complesse della corteccia visiva primaria non si sono sviluppate completamente nel cervello dei ratti del secondo gruppo». 
La corteccia cerebrale è la struttura più avanzata del cervello, e la visiva primaria costituisce il primo livello di analisi complessa delle informazioni visive che precedentemente sono passate dalla retina e dal talamo. Le cellule semplici della corteccia visiva hanno la capacità di riconoscere, tra le altre cose, i bordi degli oggetti, ma quelle complesse sono necessarie per la cosiddetta invarianza, ossia la funzione che «ci permette di riconoscere un oggetto anche quando questo assume dimensioni o orientamenti diversi nel nostro campo visivo». Continua Zoccolan: «Si pensi ad esempio al volto di una persona. Ogni volta che incontriamo di nuovo un amico siamo in grado di riconoscerlo, anche se in effetti il suo volto è sempre diverso, con sfondi differenti, con colori cambiati o tonalità disuguali». La ricerca ha dimostrato che «questa proprietà dell’invarianza non si eredita, ma è legata alle esperienze delle prime fasi della vita. Abbiamo risposto a un quesito che i neuroscienziati si ponevano da decenni, e lo abbiamo fatto scoprendo un legame causale tra le esperienze visive dell’infanzia e lo sviluppo di queste cellule del cervello». 
Il processo di apprendimento dell’invarianza avviene quindi in maniera spontanea, purché si sia sottoposti ai giusti stimoli. La capacità di apprendere in maniera spontanea, indipendentemente dalle indicazioni che sono offerte, è chiamata non supervisionata (unsupervised) ed è utilizzata anche dai programmi di machine learning che effettuano clusterizzazioni, ossia che dividono e classificano oggetti, immagini o file senza che sia dato loro un criterio, ma sulla base di associazioni che i software apprendono in maniera spontanea.
Il risultato di Zoccolan e Matteucci dimostra per la prima volta l’importanza che la visione non supervisionata, o passiva, riveste nella corretta formazione delle cellule neuronali complesse. Questa scoperta non ha solamente un valore scientifico, ma potrebbe avere anche conseguenze pratiche. Sul versante sanitario, la speranza è che possa fornire indicazioni utili per aiutare nei Paesi in via di sviluppo i bambini che soffrono di cateratta congenita ad acquisire velocemente nuove abilità visive una volta riacquistato il pieno uso della vista.
Soprattutto, però, il risultato dei due ricercatori della Sissa di Trieste potrebbe trovare applicazioni nel campo dell’intelligenza artificiale. I meccanismi di apprendimento supervisionato e non supervisionato sono infatti alla base del processo di machine learning. Nel caso dell’apprendimento supervisionato, la macchina è nutrita con migliaia, ma anche milioni, di immagini o file che sono stati “labellizzati, vale a dire etichettati da qualcuno: il software impara il criterio di labelizzazione e lo utilizza per effettuare le sue previsioni. Si tratta di un processo efficiente, ma ovviamente lungo. 
Nell’apprendimento non supervisionato, al contrario, è la macchina che trova e ricerca pattern comuni all’interno degli stimoli a cui è sottoposta. Questo processo di ricerca avviene attraverso una serie di affinamenti continui, secondo una modalità di “fine tuning” che assomiglia in tutto e per tutto al meccanismo scoperto da Zoccolan. «Da tempo – recita l’articolo con i suoi risultati, pubblicato su Science Advances - è stato proposto che l’affinamento dei neuroni sensoriali sia determinato dall’adattamento alla statistica di segnali che devono essere decodificati», e utilizza quindi un linguaggio che può essere applicato senza alcun cambiamento a una rete neurale artificiale convoluzionale. In altre parole, la scoperta dei due neuroscienziati apre a nuove forme di apprendimento non supervisionato, suggerendo che la visione passiva digitale potrebbe essere usata per addestrare velocemente una rete neurale profonda a distinguere e classificare gli oggetti del mondo nel quale viviamo.
Insomma: i ratti che vanno al cinema ci stanno aiutando non solamente a capire come si sviluppa la nostra intelligenza, ma anche a migliorare l’intelligenza artificiale.