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 2020  giugno 07 Domenica calendario

A tavola con Franca Fossati-Bellani

«Nella prima fase della pandemia abbiamo perso la testa. Come se fossimo nell’Antico Testamento. Il coronavirus sembrava una delle sette piaghe di Egitto. Nella seconda fase la razionalità è riemersa. Siamo tornati ad una progettualità della cura quando, per esempio, abbiamo constatato che gli anti-infiammatori servivano in non pochi casi a risparmiare la terapia intensiva ai pazienti con precise caratteristiche patologiche. Ma, questo, è solo uno dei tanti passaggi dell’uscita da una situazione drammatica e inattesa a cui eravamo del tutto impreparati. Adesso che l’Italia sta riaprendo, è triste e penoso lo spettacolo di alcuni scienziati che, complici i media, litigano, qualche volta con volgarità e narcisismo. Ci vogliono competenza, compostezza e senso civico. Bisogna riorganizzare la sanità pubblica in una società che ha sperimentato la paura e morte e che, ora, teme di trovarsi più insicura e povera».
Franca Fossati-Bellani è la dottoressa che, in Italia, ha sviluppato per prima l’oncologia pediatrica. «Dopo la laurea in medicina, sono entrata il 2 gennaio del 1967 all’Istituto dei tumori di Milano. Nessuno si occupava dei bambini colpiti dai tumori. A noi donne gli uomini riservavano soprattutto le specializzazioni che, nella mentalità di allora, erano considerate di accudimento. Ho incontrato 5.500 storie. La prima bimba si chiamava Maria. Il primo bimbo Simone. Vado per i settantanove anni. Più passa il tempo e più ricordo, con precisione e vividezza, i nomi e le vicende dei bambini che ho seguito nei primi quindici anni di ospedale».
Nella sua casa di Milano, vicino a Piazza Tricolore, la cucina ha le finestre aperte sul cortile interno. Ogni mensola è piena di oggetti: «Molti erano nella casa dei miei genitori». In questa cucina ci sono tante piante. Fuori si sta bene, la temperatura è mite. Anche se Milano, paralizzata dalla recessione internazionale provocata dal coronavirus e turbata dai fallimenti inanellati in questi due mesi dalla sua classe dirigente cittadina e regionale, sembra un organismo che si sta risvegliando poco alla volta da un’anestesia dolorosa e traumatica: la città ha i riflessi rallentati e le percezioni alterate.
L’aria forma una corrente piacevole fra la cucina e la sala, dove si trova il pianoforte: «La musica è una delle grandi passioni della mia vita. La mia insegnante di piano, Nemi Lattuada, ospitava nel suo appartamento di Via Crivelli i saggi dei suoi allievi. Al mio, a 15 anni, incontrai Maurizio Pollini, un coetaneo che si misurava alla pari con i grandi musicisti milanesi ospiti di quella casa. Mia zia Anna frequentava casa Toscanini, era amica della Wally, la figlia di Arturo. Fra le tante cose indimenticabili a cui ho assistito alla Scala, ci sono un recital di Arthur Rubinstein su Chopin, il Macbeth di Verdi diretto da Riccardo Muti e Arturo Benedetti Michelangeli nel concerto in la minore di Grieg».
Franca finisce di preparare dei ravioli di magro, con il burro e il parmigiano: «Vuole per caso aggiungere della salsa di pomodoro?». La sua famiglia è appunto milanese e lombarda. Dal 1966 al 1999 ha abitato con i figli nella casa del suocero, l’architetto Lodovico Barbiano di Belgiojoso, in Strada Privata Perugia, dietro al Conservatorio. I suoi racconti potrebbero stare nelle pagine tragicamente felici di Carlo Emilia Gadda più che in quelle sarcasticamente pessimiste di Alberto Arbasino. Ancora prima, la casa in cui è cresciuta con quattro fratelli e una sorella era a Milano in Via dell’Annunciata, dietro Via dei Giardini. La madre Laura Tronconi proveniva da una famiglia di industriali monzesi: «Producevano cappelli. Lei ha fatto il liceo classico ma, dato che era una ragazza, la famiglia non le ha permesso di iscriversi all’università». Il padre Felice era un industriale, ramo tessile, stabilimenti in Valtellina: «Il cotonificio di famiglia ha fatto fallimento con la grande crisi della fine degli anni Settanta».
Franca Fossati-Bellani è un medico. Ha trascorso tutta l’esistenza fra la vita e la morte. Conosce la prima e ha familiarità con la seconda. Viene naturale parlare con lei della fine, almeno “amministrativa”, della attuale emergenza del coronavirus, decretata questa settimana dall’apertura dei passaggi da una regione all’altra. Una fine, appunto, solo amministrativa: «Ora è tutto da costruire. Le abitudini personali. Le politiche pubbliche. L’idea della scienza. Bisogna pensare, in modo nuovo, ai vecchi. Che sono stati i più colpiti dalla pandemia. Bisogna pensare ai bambini e ai ragazzi. Che, con grave errore, abbiamo ritenuto indifferenti al coronavirus, perché meno segnati dalla sua diffusione. Per la prima volta i più piccoli sono stati separati dagli anziani: non era mai successo nella storia della nostra civiltà che non fosse permesso loro di stare insieme e di abbracciarsi, di confidarsi e di parlarsi, di prendersi cura reciprocamente gli uni degli altri. E, a parte il rapporto con i nonni, non sappiamo ancora nulla degli effetti sulla psiche e sulla salute dei bambini e degli adolescenti. Sappiamo solo che, per metà anno, non sono andati in aula. La scuola è da riorganizzare. Soprattutto nell’ipotesi che, dall’autunno, si verifichino altre ondate pandemiche. Gli insegnanti e i maestri avranno un ruolo fondamentale. E, ancora di più, lo avranno i presidi, che dovranno sperimentare una leadership in grado di non lasciare soltanto alla buona volontà e all’arbitrio dei docenti il se e il che cosa fare. So che cosa vogliono dire il potere e la responsabilità».
Franca tira fuori dal frigo una birra e ne versa due dita a entrambi. Nella Milano degli anni Novanta e degli anni Duemila lei è stata, in una professione dominata da maschi, una delle poche donne di reale influenza: all’Istituto dei Tumori è stata nominata nel 1987 direttrice di oncologia pediatrica e, nel 1997, è diventata coordinatrice e direttrice di tutta l’oncologia medica. Appartiene alla tradizione che, a Milano, ascende a Luigi Mangiagalli, fondatore dell’Istituto nel 1928, che passa per Pietro Bucalossi e che arriva a Umberto Veronesi. In più, lei è entrata a far parte del gruppo di lavoro di Gianni Bonadonna, fondatore dell’oncologia medica in Italia, disciplina già consolidata negli Stati Uniti, dove si era formato.
L’Italia è stata colpita dal coronavirus. Milano e la Lombardia sono state piegate. «In tutto l’Occidente abbiamo sottovalutato questo virus. Abbiamo pensato tutti quanti che, come nel caso della Sars, sarebbe rimasto confinato all’Asia. In più, qui in Lombardia, la nostra sottovalutazione si è nutrita della nostra arroganza. La retorica degli ultimi anni di una grande Milano nella piccola Italia può avere influito. Anche se ha influito ancora di più il modello sanitario costruito negli ultimi 25 anni. L’eccellenza, l’eccellenza, l’eccellenza: il miglior stent, la migliore protesi, il miglior tutto. Tutto questo ha edificato una cattedrale incentrata non sulla salute, ma sulla malattia. E ha delegittimato il medico di famiglia. Io, già quindici anni fa, guardavo ammirata il modello di cure palliative pediatriche del Veneto, in cui i medici di famiglia e gli specialisti, le famiglie e gli ospedali si mettevano tutti insieme, con il coordinamento dello specialista in cure palliative, al servizio del malato. Proposi, allora, di organizzare, secondo quel modello, cure palliative pediatriche, che sono radicalmente diverse da quelle per gli adulti, anche in Lombardia. Nessuno mi diede retta».
Mentre lo dice insiste per cambiare il piatto in tavola: «Di secondo ho fatto la bresaola. Il burro sul piatto non va bene. Prendiamone un altro. Bisogna condirla con l’olio e il limone».
Franca non ha soltanto incontrato – come dice lei, nel libro autobiografico “Curare i bambini è la mia medicina” (Solferino Editore, con Agnese Codignola) – 5.500 storie, ma ha anche pubblicato – insieme ad altri autori – articoli scientifici su “Cancer” e “Lancet”, “Journal of Clinical Oncology” e “New England Journal of Medicine”. La sua cifra professionale è allo stesso tempo clinica, scientifica e umanistica. «Ho sempre creduto nella scienza, non nello scientismo. E, questo, vale anche adesso, di fronte ai nuovi virus. Ho una formazione di base umanistica, ho appena ricominciato a leggere Melville. La specializzazione non deve diventare arida compartimentazione, come accade nel modello americano. Servono incroci multidisciplinari. Fra segmenti della scienza. Ma anche fra sapere scientifico e sapere umanistico. Per me ha un grande significato simbolico che, nell’ospedale di Codogno, una anestesista, Annalisa Malara, abbia per prima intuito che il malato che aveva davanti poteva avere preso il coronavirus», spiega mentre finiamo di mangiare l’insalata di pomodorini con rucola.
Ogni cosa è, adesso, avvolta in un enigma. «Soprattutto nelle prime fasi del coronavirus – dice Franca, preparando come dessert fragole e ribes – ho fatto un sogno ricorrente. Ero a Camogli, seduta in riva al mare. Il mare era calmissimo e grigio. Si confondeva con la nebbia. In acqua c’era una mamma con dei bimbi. Io, ad un certo punto, scivolavo nell’acqua per andare a vedere i bimbi».
L’inquietudine onirica della realtà di questi mesi è coagulata in questo racconto. Nonostante le paure e le incertezze, molto è cambiato: «Adesso sogno bambini che si divertono con dei giocattoli e che giocano fra di loro. Come se le cose potessero ricominciare», conclude sciogliendosi in un sorriso.