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 2020  giugno 06 Sabato calendario

Intervista a Sergio Rubini

«Io non vi ho dato il nome ma voi vi siete presi l’arte» è la battuta immaginaria e simbolica che Eduardo Scarpetta, prima di morire nel 1925, riserva a Eduardo De Filippo, alludendo a lui, Peppino e Titina, figli naturali suoi e di sua nipote Luisa. La frase è la chiave di volta dell’imminente film sulla famiglia d’arte più popolare della storia del teatro italiano del Novecento, I fratelli De Filippo, regia di Sergio Rubini anche sceneggiatore insieme alla moglie Carla Cavalluzzi e ad Angelo Pasquini, cast di giovani con rinforzi illustri, calendario del set dipendente dai protocolli del governo.

Rubini, come nasce quest’impresa sul mai ben narrato slancio di tre talenti cui ufficialmente non è permesso definirsi figli d’arte?
«Tutto comincia da un’ingiustizia. Alla morte di Scarpetta, se si eccettua un vitalizio di 200 lire mensili lasciato alla loro madre, i De Filippo non ricevono nulla. Scatta una voglia di rivalsa. Dal 1925 al 1931 la "famiglia minore" s’impegnerà a far trionfare il cognome materno: rimpiazzando il teatro farsesco dell’800 con un nuovo stile più realistico, e formando pian piano una nuova band coraggiosa, una fattispecie di Beatles della scena. Ne parlai nel 2015 ad Agostino Saccà, produttore con la Pepito d’un lavoro in cui recitavo, quando mi chiese a cosa avrei pensato, io, da regista d’una serie tv.
Ascoltandomi, disse che aveva la pelle d’oca. Portò subito la proposta alla Rai. L’idea, che in origine s’estendeva fino al 1944, dette luogo a una ricerca e a una scrittura, poi l’ipotesi della fiction non passò. Non abbiamo rinunciato. Ne è nato un film di Saccà e della figlia Maria Grazia. Circoscritto al primo tirocinio dei De Filippo».
Un arco di sei anni, il rodaggio di fratelli attori alle prese con fatiche e avversità. Come mai?
«Il racconto del defilippismo ha, di bello, che nasce da fame e sofferenze per inseguire un traguardo autonomo, senza abbandonarsi a una crescita ovattata, a saltuarie chiamate da ragazzi negli spettacoli del sultano Scarpetta chiamato "zio", e ad arruolamenti nella compagnia di Vincenzo Scarpetta, il fratellastro-erede. A loro tre non era mai mancata l’educazione da piccoli borghesi, ma era frustrante essere figli di N.N., chiacchierati. Peppino, con la sua acidula biografia Una famiglia difficile del 1972, svuotò il sacco sulla legittimazione paterna negata, mentre i fratelli tendevano a glissare. Salvo poi, è il caso dell’Eduardo maturo, inserire i problemi sofferti in qualche dramma».
Nel 1925, avvio del film, quando a 72 anni Scarpetta scompare, Eduardo ha 25 anni, Peppino 22 e Titina 27, la madre Luisa ne ha 47, e il fratellastro Vincenzo 48. Che ritratto esce dei giovani?
«Immaginiamoli più o meno assorbiti nella compagnia di Vincenzino, o altrove: Eduardo s’avventura a Milano per italianizzare con Luigi Carini la propria pronuncia ma l’impresa fallisce, e Titina sperimenta più compagini, incontrando in scena Pietro Carloni. Il pallino di Eduardo e Peppino è una formazione col loro nome in ditta, e la cosa riuscirà quando l’impresario Aulicino, abbandonato da Totò che andò via per il suicidio d’una soubrette sua compagna, scritturò i due fratelli accanto alla già operativa Titina, permettendo che i De Filippo si autobattezzassero Ribalta Gaia, preludio al loro Teatro Umoristico.
Ma nella via verso la libertà e il parricidio artistico si colgono i sintomi di un’unione tra diversi».
Quanto e come diversi?
«Peppino era cresciuto a balia fino al 1905, convinto che i suoi tutori di campagna fossero i veri genitori, e tornando a Napoli fece fatica a integrarsi coi fratelli, conservando un’indole scalpitante. Titina ebbe un’educazione alla francese nella corte-cagnara scarpettiana emersa da rapporti endogamici: lei tenderà alla normalità. Eduardo era attratto dall’altrove, dotato di spinta centrifuga che fu il suo scotto d’autore, e credette di trovare in Pirandello il padre desiderato per un confronto intellettuale: era il più solitario, teorizzava la risata amara, e a Taormina nel 1984 parlò del gelo della sua esistenza».
Il film "I fratelli De Filippo" svelerà anche il privato dei tre futuri protagonisti del Teatro Umoristico dal 1931 al divorzio del 1944?
«Nella vita di Eduardo entra nel 1928 l’americana Dorothy, con matrimonio anglicano. Titina si sposa presto con l’attore Pietro Carloni. E Peppino, che non disdegna amori, prende in moglie la sorella di Carloni. Eduardo evita il cerchio interfamigliare. Malgrado lui sia il collante dei fratelli, la sua anaffettività per la madre e poi per Lidia Maresca cara a Peppino condurrà in seguito alla rottura».
Tra un criterio documentativo e una narrazione di caratteri e destini, come s’orienta il film?
«Poca aneddotica. Abbiamo inventato episodi che sono frutto di sintesi, affinità, idiosincrasie.
Nessuna ambientazione storica, pur riproducendo verosimiglianze. Ci sono sequenze non sempre cronologiche: Pirandello conosciuto per i "Sei personaggi" del 1921 qui è incontrato dopo. Dei titoli eduardiani, consideriamo "Sik-Sik, l’artefice magico" e l’atto unico iniziale di "Natale in casa Cupiello" che nel 1931 esplose come una bomba, senza troppe risate, congedando la tradizione».
E il cast di questa meglio gioventù defilippiana?
«I tre fratelli saranno giovani venti-trentenni napoletani di cui ho già i provini, con sostegno di attori più maturi. I nomi li faccio appena le date delle riprese saranno consentite».