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 2020  giugno 06 Sabato calendario

Una mostra ispirata a Kafka

Dove eravamo rimasti? Già! Eravamo rimasti a Kafka che avrebbe potuto scrivere uno dei suoi romanzi su quello che è accaduto all’umanità in questi ultimi mesi. «Agisci nel tuo luogo, pensa con il mondo» scriveva il grande poeta caraibico Édouard Glissant. Che era proprio l’opposto di quello che accadeva prima del Covid, con i vari sovranisti che spuntavano come funghi velenosi in giro qua e là. Poi è arrivata la pandemia e siamo stati tutti obbligati ad agire nei nostri luoghi pensando al mondo, che all’improvviso è tornato a essere immenso e lontanissimo. Si potrebbe dire che la mostra, anche se non è proprio una mostra, K, organizzata dalla Fondazione Prada di Milano ( fino al 25 ottobre) involontariamente e forzatamente parlava proprio di come, stando nel proprio luogo, si possa tuttavia parlare del mondo. Di come attraverso i dubbi e i problemi della nostra identità si possa riflettere sui dubbi e sui problemi dell’umanità. K sta per Kafka, uno degli scrittori più tradotti della storia della letteratura, un nome che tantissimi conoscono senza magari aver letto nemmeno uno dei suoi libri.Ma K sta anche per Kippenberger, Martin, l’artista tedesco morto nel 1997 a soli quarantaquattro anni – quattro in più di quanti ne aveva Kafka alla sua morte – la cui opera testamento del 1994, The Happy End of Franz Kafka’s Amerika, ” Il lieto fine di America di Franz Kafka”, è con una cinquantina di tavoli, un centinaio di sedie, delle torrette di guardia, l’epicentro di questo semplice ma profondo progetto curato dalla terza K, il curatore Kittelmann, Udo, direttore del Museo Nazionale di Berlino. KKK quindi, sigla che potrebbe richiamare il Ku Klux Klan, la terribile organizzazione razzista americana. Ma non c’entra nulla. Eppure, in questi tempi bui di razzismo imperante, K pone questioni proprio sullo stato del mondo, della società e delle sue diverse identità. Né lo scrittore, né l’artista, né il curatore sono personaggi politicamente impegnati: non vogliono propinarci una lezioncina intellettuale su come debbano funzionare le cose o le idee. Anche se Kittelmann, a Berlino, con una mostra sull’espressionista tedesco Emil Nolde, dove assieme ai quadri mostrava e svelava le simpatie naziste e l’antisemitismo che l’artista aveva sempre nascosto, ha spinto addirittura la cancelliera Angela Merkel a togliere le opere del pittore dalle pareti dei suoi uffici. L’arte e la cultura sono politica, pur non avendo un loro partito. Anche K è una mostra dove la politica si aggira come un fantasma.
Il progetto, come racconta in un bel testo del catalogo il curatore stesso, è come una pala d’altare, composta di tre parti. Ognuna mostrata in uno spazio diverso della fondazione milanese. Ogni parte fa riferimento a uno dei tre romanzi incompiuti di Kafka.
America, la grande installazione di Kippenberger nel Podio acquario della fondazione. Il processo, con il film omonimo del 1962 di Orson Welles, proiettato senza interruzioni nel cinema. Il castello, un album del 2013 dello storico gruppo musicale tedesco dei Tangerine Dream, che si può ascoltare seduti su poltrone in stile anni ’ 70, negli spazi della Cisterna. Non c’è gerarchia su come guardare e ascoltare la mostra, anche se il campo da calcio sintetico su cui rimangono vuote e mute sedie e tavoli di Kippenberger sicuramente ruba la maggior parte dell’attenzione del visitatore. Forse per coincidenza, forse per una di quelle fortune che ogni tanto capitano o ispirano noi curatori, bisogna dire che i tre titoli dei tre romanzi e delle tre opere non potrebbero essere più azzeccati e in sincronia con la realtà contemporanea. Un’America che da sogno è diventata un incubo.
Il processo, senza chiari crimini o colpe, al quale oggi la politica – ma anche ognuno di noi – è sottoposta attraverso l’uso sconsiderato dei social. Il castello, luogo misterioso, inarrivabile e chiuso che sembra essere diventato all’improvviso per colpa del virus la Cina. Una lettura come ce ne possono essere altre più astratte e più personali, ma sempre in qualche modo universale. Il saper dire attraverso la propria individualità, anche esasperata come era quella di Kippenberger, qualcosa che arrivi a tutti gli individui è da sempre il segreto della grande arte.
Le sedie e i tavoli, alcune opere di amici e colleghi dell’artista, sono spazi dove Kippenberger immaginava si dovessero svolgere i colloqui del protagonista di America, il sedicenne Karl Rossmann, per potere essere assunto dal grande teatro di Oklahoma. Il romanzo si interromperà con Karl che guarda dal finestrino di un treno l’immenso, immaginario – Kafka non andrà mai in America – paesaggio che scorre via. Kippenberger in America ci andrà ma rimarrà deluso. L’opera è un po’ il frutto di questa delusione, ma anche una sorta di grande colloquio incompiuto con l’arte. Kippenberger, bevitore eccessivo, al quale avevano diagnosticato un cancro al fegato, sapeva che questa grande installazione sarebbe stata il più ambizioso dei suoi ultimi lavori. Nonostante due monitor disseminino suoni, parole e musica nello spazio, le sedie e i tavoli osservati da torrette di guardia, simili a quelle che controllavano il muro di Berlino, emanano un silenzio fragoroso per chi si trova lì davanti all’opera.
Kippenberger e tutto il progetto K sembrano coltivare quel dubbio esistenziale, sia personale che collettivo, che ci fa chiedere: «saremo mai ascoltati?», «saremo mai giudicati?», «saremo mai in grado di arrivare dentro al castello dei nostri sogni, delle nostre aspirazioni e delle nostre ambizioni?». Il sospetto – a volte più, a volte meno frequente – che la risposta sia «mai» lo abbiamo. Il sospetto che la nostra e la vita in generale sia nel bene e nel male destinata a essere come i romanzi di Kafka, non finita, condannata a rimanere come una delle sedie di Kippenberger: vuota. Sospetto che il Covid 19 ha soltanto rafforzato.