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 2020  giugno 06 Sabato calendario

Biografia di Paolo Sorrentino raccontata da lui stesso

All’incrocio tra cinema e libri, Paolo Sorrentino ha posto l’uso inopinato della parola fallimento, come l’indissolubile contiguità alla nostra finitezza. Guardo la sua faccia e penso a una visione perduta del mondo.
Penso ai suoi tratti malinconici ornati da una fronda irrisolta di capelli che sembra portino scompiglio nei pensieri e nello sguardo. Le lunghe basette sono il dettaglio di una vita che in un altro secolo avrebbe indossato panni da poeta foscoliano o da ufficiale napoleonico. Chissà. Dovrei aggiungere che è un artista importante e discusso, un uomo riservato e tenace, irritabile ma al tempo stesso fedele alle scelte e se dovessi spiegare perché a me piace com’è, dovrei spingermi nei meandri pomposi dell’estetica filmica.
Lasciamo stare. Il suo cinema e i suoi romanzi esprimono l’irrilevanza della vita come la cosa più naturale e importante con cui ci misuriamo. Non c’è niente di eroico. Nella normalità, che ci racconta, c’è sempre, tuttavia, l’inatteso: un movimento verso il basso, una caduta che non ci aspettiamo e ci sorprende.
Ha un Oscar e un Premio della giuria a Cannes alle spalle e un consenso internazionale come di rado è accaduto ai registi italiani. Ha amato Maradona e Fellini. Due talenti eccessivi. Ha subìto una tragedia avvenuta troppo presto e troppo in fretta, con la morte improvvisa dei genitori. Traumi, silenzi, risalite. La scorsa domenica ha compiuto cinquant’anni, un’età mediana che di solito spinge a guardarsi indietro e dentro per cominciare a prendersi cura della propria vita: «Provo a farlo prendendomi cura delle parole», dice. «Sono importanti. Se sono ben dette, ti fanno sentire bene».
E lei come si sente ora?
«Ogni qual volta che mia madre doveva fare un regalo si rivolgeva ai negozianti con un tormentone: "Mi faccia fare bella figura". Ecco vorrei non sfigurare».
È una dichiarazione di timidezza.
«Non amo eccessivamente parlare. Un po’ come certi miei personaggi che si esprimono con i gesti, i vestiti, le mise».
Come Tony Pagoda, il crooner di "Hanno tutti ragione".
«Lui, certo. Ma anche il suo maestro Mimmo Repetto».
Però molto diversi.
«Molto».
Uno eccessivo in tutto: nel vestire, nel tingersi, nelle amicizie pericolose che frequenta. L’altro descritto come una carcassa cadente che si destreggia tra un catetere e una sedia a rotelle, suonando Bach, meravigliosamente. Avrebbe potuto avere una lusinghiera carriera da solista, ma la carriera la fanno solo quelli che nessuno vuole ascoltare, gli fa dire. A quale mondo essi appartengono?
«Hanno una cosa in comune: l’accanimento con la vita. Ed è qualcosa che mi fa commuovere. Uomini tinti, rifatti, truccati, vanitosi, patologici, in certi casi apostoli dello stile e della classe, è di loro che prevalentemente mi occupo. Non so bene perché, mi rimettono al mondo. Forse perché mi fanno apparire il resto dell’umanità come una macchia sbiadita e dimenticabile. Ed è vero: non guardiamo loro ma lo spettacolo che ci offrono. Perché nessuno vuole sapere cosa sei, solo cosa puoi essere. Repetto e Pagoda lo sanno e stanno al gioco. Ma in fondo alla notte, quando monologano alticci con loro stessi, ne soffrono sulla base di un vecchio erroneo dogma: essere accettati per quel che si è».
Farsi accettare per quel che si è, più un equivoco o un riconoscimento?
«Presupporrebbe che la gente ci conosca davvero. Ma alla fine conoscere l’altro è solo un malinteso. Non basta diventare vecchi per conoscersi meglio».
La vecchiaia di Michael Caine in "Youth" si adorna di una perfezione di modi e di gesti. Ma è diversa dalla vecchiaia di Repetto. È un musicista annoiato, deluso, anche lui artefice di un successo senza vero ascolto. Sono due modi opposti di leggerla?
«Perché opposti? Anche il catetere può essere indossato con inarrivabile eleganza. Le differenze tra i due personaggi stanno nella fortuna e nel metabolismo. Uno ha bisogno delle flebo, l’altro dei ristoranti stellati. Per il resto, sono noiosi perché si annoiano e divertenti quando si divertono, ma a un certo punto hanno dimenticato la differenza tra due sentimenti. Vivere a lungo, ho questo sospetto, può rendere opachi e sfocati i sentimenti».
Cosa l’interessa o l’attrae della vecchiaia? Non credo la saggezza.
«Mi interessa proprio l’ostinazione a non voler invecchiare. Mi piace pensare, forse ingenuamente, che la vecchiaia sia una messa in scena. E che si rimane giovani se si resta legati al ricordo di quel tempo, come a una scandalosa esplosione di vitalità, in circolo per sempre. Anche se, nel trascorrere degli anni, solo nella forma impalpabile della memoria».
Come cantava Bob Dylan: "Forever Young".
«Lui dice: voglio essere per sempre giovane, ma aggiunge che è difficile diventare vecchi senza un motivo».
Lei non ha fatto in tempo a vedere invecchiare suo padre.
«Tecnicamente no. Aveva solo 55 anni quando è morto, insieme a mia madre in un incidente. E io sedici. Ma i giovani, avendo scarsa dimestichezza con il trascorrere dei decenni, percepiscono i genitori come anziani anche quando non lo sono».
Chi erano i suoi genitori?
«I miei genitori erano cresciuti nei Quartieri Spagnoli, origini popolari. Come molti anelavano a un salto sociale. Così si trasferirono al quartiere collinare del Vomero, dove sono cresciuto. Proliferavano, come comandamenti religiosi, i rituali e le nuove abitudini della classe media. Cresceva un bellissimo linguaggio imbastardito, un napoletano italianizzato e pericolante che ho saccheggiato quando ho scritto Hanno tutti ragione ».
Quel romanzo uscì nel tempo dei suoi 40 anni. La scorsa settimana ne ha compiuti cinquanta. Che genere di età pensa di stare vivendo?
«Riguardo ai miei cinquant’anni immagino che ci capirò qualcosa solo quando ne avrò settanta. Invece, l’infanzia mi è chiara».
Nel senso?
«Credo sia stata una meravigliosa attesa di niente. In quei pomeriggi infiniti tutti noi bambini venivamo parcheggiati fuori dal palazzo a giocare a pallone, a parlare e a prenderci in giro. La magnitudo dell’impatto emotivo era altissima. Sudati e felici attendevamo che le madri ci richiamassero dalle finestre, perché era pronta la cena. Insomma, un’infanzia perfetta».
Anche gli anni trascorsi in un liceo salesiano sono stati perfetti?
«Mica tanto. Ricordo che le mie inquietudini e affanni giovanili non erano compensati o leniti dalla sobrietà un po’ dozzinale di quegli ambienti e neppure da certa forzata allegria che i preti esibivano e che non ho mai capito. Però ricordo con piacere Don Draisci, un prete ovale di un metro e cinquanta che insegnava filosofia e parolacce. Capivo poco la filosofia, ma molto bene la forza espressiva delle parolacce, che per me sono una grande risorsa linguistica. Soffro molto quando mi ritrovo in contesti in cui non si possono usare. Il mio eloquio si fa involuto e lungo. Con le parolacce mi esprimo in modo efficace e sintetico. E contesto che esse siano volgari».
Cinque anni nel liceo di ininterrotta predicazione l’hanno avvicinata o distanziata da Dio?
«Allontanato. Perché a mio parere i preti sbagliavano approccio. Anziché concentrarsi sulle domande si sforzavano a fornire risposte. Che puntualmente mi apparivano poco credibili».
Con quali tempi affronta il progetto di un film?
«È fondamentale che sia il produttore a trascinarmi. Purtroppo non credo molto nei miei progetti».
Anche quando scrive una sceneggiatura?
«Non fa eccezione. Ho il cassetto pieno di copioni che non sono stati realizzati».
Quando scrive cosa immagina che accadrà?
«Scrivo mosso da un unico parametro di valutazione: me come spettatore. Deve prima di tutto piacere a me.
Gli altri sono troppi, indistinti e pieni di pregiudizi per poter essere accontentati. Scrivo come se scrivessi un romanzo. Me lo insegnò Antonio Capuano, un regista cui devo tantissimo».
Quando ha capito che il cinema poteva diventare una parte fondamentale della sua vita?
«Andavo a vedere film di registi italiani contemporanei e pensavo con l’ottusa spavalderia dei miei 19 anni: "Ma questa roba la saprei fare anch’io!". Non era vero. Non ho mai imparato a fare quella roba».
Chi sono i registi che ama?
«Amo in particolare Fellini, Lynch, Truffaut e Scorsese perché si sono occupati meglio di altri dell’unica cosa che in fondo va veramente raccontata: l’imbarazzo della verità. Può sembrare strano, ma negli ultimi tempi ho capito che posso imparare da registi più giovani di me. Quando ho fatto questo pensierino mi sono meravigliato di me stesso. Ho pensato: "Toh che umiltà! Vuoi vedere che stai diventando, finalmente, anche un poco intelligente?"».
Dino Risi, cui ha dedicato un racconto, finì la sua vita in un residence. Cosa l’ha attratta di quella storia?
«Il residence è un luogo misterioso. Lo immagino come un convento laico. Quanto a Risi l’ho solo sfiorato, ma lo amavo alla follia. Come tutti i cineasti della sua generazione. Una delle cose che mi piaceva di più fare, quando stavo per terminare un film, era mostrarlo a loro. Organizzavo sempre una proiezione per Suso Cecchi D’Amico, Risi, Scola, Rosi, La Capria. Avevo la certezza che mi avrebbero giudicato con sincerità. E così accadeva».
Un cineasta pensa per immagini o pensa e basta?
«Se non "vedi" quello che non c’è, forse non è il mestiere giusto da scegliere. Però, più che le immagini, conta l’apporto di tutte le componenti in gioco. Certo, esse rivestono un ruolo fondamentale. Ma oggi siamo oberati da immagini tanto meravigliose quanto sterili.
Perciò, penso che un film accettabile sia il risultato degli accordi tra molte cose: immagini, caratteri, dialoghi, volti, musiche e via dicendo. Aggiungo che sono lo stile e il ritmo a rendere un film interessante. Le immagini non sono sufficienti, hanno bisogno di un immaginario».
L’immaginario è l’impalpabile, il retroterra onirico, il salto logico che può rendere credibile e misterioso l’uso delle immagini. Nei suoi film l’uso dell’immagine prevale sulla trama o su quella parola feticcio che si chiama "messaggio".
«Se un film si deve agganciare alla vita, allora la logica serve a poco. Io la penso così, dal momento che molto spesso la vita mi sembra sprovvista di logica. Però il film per non deludere, per non diventare un informe materiale dilettantesco, deve possedere una coerenza interna, una credibilità intrinseca. È il compito del montaggio provare a realizzare tutto questo».
Com’è la fase in cui monta un film?
«Un momento esaltante. Tutto mi appare possibile.
Dunque, pericoloso. Il mio montatore, Cristiano Travaglioli, quando mi sente degenerare in un flusso di idee incomprensibili, mi apostrofa sempre con le stesse tre parole: "Non ti disunire"».
Questo invito alla compattezza mi fa pensare a uno scrittore come Kafka, è come se i suoi romanzi "disuniti" venissero compensati da un uso folgorante del montaggio cinematografico.
«In Kafka il montaggio addensa i suoi pensieri. Non a caso, Fellini voleva realizzare un film da America ».
Che libri le piacciono?
«I miei prediletti sono Morte a credito e Viaggio al termine della notte. Céline ha tutto quello che per me ci deve essere in un romanzo: uno stile potentissimo, una lingua che è musica e un’incessante ricerca della verità, intesa come fonte di imbarazzo, di vergogna e di erotismo. È come se mi dicesse a ogni riga: "Guarda quanto l’uomo può essere miserabile e meraviglioso".
Poi amo tanti altri scrittori, alcuni sono italiani un po’ dimenticati: Ottieri, Camporesi, che non era però un romanziere, Marotta».
Dostoevskij si spinse a dire che la bellezza salverà il mondo. Cosa pensa di una frase che sembra essere finita fatalmente nel repertorio del kitsch?
«Per me non ha alcun senso. Intanto il mondo da che cosa andrebbe salvato? Ultimamente, poi, tanti si sono incagliati in astruse definizioni della bellezza. Io non so che cosa sia. D’accordo, ho fatto un film che si chiama La grande bellezza. Ma non intendevo svelare nessun mistero né offrire una risposta. Ho posto solo una domanda».
Quale?
«Si può ancora parlare di bellezza?».
Protagonista del film con cui ha vinto l’Oscar è Jep Gambardella, prima c’era stata la figura di Andreotti nel "Divo" e dopo Berlusconi in "Loro". Cos’hanno in comune?
«Hanno in comune un potere e lo spettro del fallimento di quel potere. Un fallimento che genera una solitudine strisciante, viscida che li attanagliava anche prima. Per alcuni tipi di uomini la solitudine è un destino».
Lei la patisce?
«Convivo con la solitudine, a volte allegramente e altre ancora con malinconia».
Un altro motivo che accomuna i tre protagonisti è la presenza di Toni Servillo. Come si è evoluto il rapporto tra voi e che margine di mistero conserva per lei la sua recitazione?
«All’inizio ero intimorito. Lui, già un gigante del teatro, io un miserabile che andava in giro con il suo copione, sperando che qualcuno gli desse retta. Con gli anni, Toni è diventato un altro fratello maggiore. Se ho un problema, lo chiamo. Soprattutto se mi è capitato qualcosa di divertente. È un rapporto che si basa sulla necessità di ridere e di sdrammatizzare. Quanto alla recitazione per me è un mistero e voglio che rimanga tale. Solo così posso continuare a stupirmi. Ma può accadere anche il contrario. Può accadere che l’attore non sappia cosa il regista stia facendo. E allora penso che dal mistero scaturisca la necessaria, reciproca fascinazione».
Non crede che il mistero abiti anche nella normalità?
«In che senso?».
Sto pensando ai racconti "Gli aspetti irrilevanti", dove la normalità dei personaggi che descrive non è per niente ovvia, è tutto tranne che normale.
«È una normalità atipica quella che racconto. Mi fa venire in mente come è nato il libro. Più di vent’anni fa, quando con quella che sarebbe diventata mia moglie davamo vita a un corteggiamento estenuante, che durò mesi. Sembravamo i protagonisti di un racconto ottocentesco. E ricordo che una domenica pomeriggio sul lungomare di Napoli, precisamente in via Caracciolo, ci mettemmo a immaginare, per ore, le vite di quelli che passavano. Così nacque quel libro e, cosa più importante, un amore».
Quel libro si chiude con un suo ritratto fotografico.
Che rapporto ha con la propria immagine, cosa le piace o non le piace di sé?
«È una domanda da rivolgere ai belli, categoria alla quale non ho la fortuna di appartenere. Ma ho notato che danno sempre la stessa risposta: "Lo sa che non mi piaccio?". Mi verrebbe voglia di mettere mano alla pistola».
Sono i misteri del narcisismo. Come narcisisti sono certi cantanti che cospargono le sue storie.
«Mi piacciono i cantanti perché piacevano moltissimo a mia madre, a mio padre e ai loro amici. Ricordo che papà e un suo amico, Mario Cornacchia, il cognome è vero, erano capaci di litigare ore, in modo furibondo, su chi fosse più bravo tra Sinatra e Aznavour. Io li ascoltavo e ho maturato l’idea che fossero questioni di una certa importanza».
Ma le piacciono anche i maghi. Sono le figure più prossime a un certo tipo di cantante, corroso dalle illusioni: stessi vestiti, stesse scarpe, stesse tinture, stessi orologi. Stesso indecifrabile mistero.
«È vero che hanno delle assonanze con i cantanti. Però più che di mistero, parlerei di tenerezza e ingenuità. I maghi mi fanno tenerezza perché credono che il mondo sia ingenuo e accolga i trucchi che mettono in scena. C’è stato un tempo in cui era effettivamente così. Ed era un tempo bellissimo. Ora mi sembra che il mondo sia diventato scaltro e affollato di inutili pudori. Con Roberto Benigni, quando ci vediamo, fantastichiamo sempre di fare un film insieme su un mago. Lui conosce aneddoti portentosi su Rol. Io gli dico che vorrei realizzare la storia di un mago innamoratissimo di una donna che non riesce a conquistare e allora materializza continuamente, negli angoli più impensati della casa dell’amata, sfavillanti mazzi di fiori. Purtroppo non mi è ancora chiaro il finale».
Rivede mai i suoi film?
«Mi capita di rivederli. E sono sempre indulgente.
Spesso mi sembrano faticosi e bellissimi».
Pensa anche lei che noi siamo quel che vediamo?
«Forse è l’opposto. Alessandro Piperno ha scritto una cosa che mi è parsa giusta: "Dopotutto la cultura di un individuo non è altro che la somma dei suoi pregiudizi"».
E magari anche di qualche piccola verità.
«Mi chiedo che valore dobbiamo attribuire alla verità.
Non parlo di quella scientifica, o quella religiosa. Parlo appunto di quelle piccole verità in armonia o in contrasto con quello che facciamo».
Lei definiva la verità imbarazzante.
«Non riesco a immaginarla diversamente. Non riesco a pensarla staccata dal desiderio. È questo rumore di fondo, questa brama che rende la verità imbarazzante. Del tutto simile alle nostre passioni. Che raramente sono nobili. E poi credo che non ci siano verità eroiche ma solo umane. E l’umano ha molto a che fare con la miseria. I miei film e i miei libri contemplano questa condizione che è prossima al fallimento, allo scacco. I miei personaggi, anche quelli che sembrano detenere un potere enorme, portano scritto in fronte tutta la catastrofe dell’esistenza».