La Stampa, 7 giugno 2020
Biografia di Cate Blanchet
La prima volta che ho visto Cate Blanchett è avvenuto sullo schermo, e ne sono rimasto folgorato, come gli spettatori di ogni parte del mondo. La sua interpretazione di Elizabeth era a dir poco straordinaria, e riusciva ad essere nello stesso tempo sensuale ed algida, antica ed estremamente moderna. Era riuscita a dare spessore e profondità all’unica intuizione di un film estremamente rozzo: per tenere uniti i suoi sudditi, molto religiosi, Elisabetta I capisce che deve rinunciare all’amore fisico e diventare la vergine madre dell’Inghilterra anglicana. Cercai di capire chi fosse quell’apparizione folgorante, e appresi che era australiana e lavorava prevalentemente con il marito Andrew Upton, un ottimo regista teatrale. Le cronache riportavano che era stata superlativa in ruoli diversissimi come Clitennestra e Ofelia, e che aveva dichiarato: «Ho deciso di diventare un’attrice quando mi sono resa conto che gli interpreti avevano il potere di commuovere gli spettatori».
Fino ad allora aveva interpretato pochi film, il più interessante dei quali era Oscar e Lucinda, a fianco di Ralph Fiennes. «Sono stata marinata nel teatro australiano», aveva scherzato in quell’occasione e ripetuto che era la sua vera passione, ma nel giro di pochi anni l’abbiamo vista vincere due premi Oscar: il primo per la formidabile interpretazione di Katharine Hepburn in The Aviator di Martin Scorsese, e il secondo per Blue Jasmine, di Woody Allen, in un ruolo che discende direttamente dalla Blanche Dubois di un Tram che si chiama desiderio.
Ha interpretato ripetutamente l’archetipo creato da Tennessee Williams: a Broadway le recensioni furono eccezionali, e se Jane Fonda parlò della «più grande interpretazione di tutti i tempi», Meryl Streep dichiarò «erano anni che non vedevo su un palcoscenico qualcosa di ugualmente sincero e straziante. Fa paura per quanto è brava, e nonostante conosca a memoria il testo, grazie a lei ho avuto l’impressione di averlo visto per la prima volta».
Non esiste regista al mondo che non abbia voluto scritturarla: oltre a Scorsese e Allen, ha già lavorato con Steven Spielberg, Wes Anderson, Alejandro Inarritu, Todd Haynes, Ron Howard, Ridley Scott, Steven Soderbergh, David Fincher e Terrence Malick. Per non parlare di Peter Jackson, che le ha affidato il ruolo di Galadriel, regina degli elfi nel Signore degli Anelli: «Quando mi arrivò la proposta, l’elemento che mi divertiva maggiormente era quello di avere le orecchie appuntite». Pochissimi interpreti possono vantare simili collaborazioni, e la combinazione tra alta qualità interpretativa ed enorme successo al box office hanno fatto di lei una delle star più importanti degli ultimi vent’anni, nonché una delle più pagate.
Tuttavia il segreto del suo magnetismo è la combinazione tra glamour e naturalezza: a conoscerla di persona, si rimane impressionati per come riesca ad essere nello stesso tempo irraggiungibile e assolutamente alla mano. È una donna sensibile e gentile, e, cosa rara per una grande star, profondamente educata: ne ho avuto prova dalla prima volta in cui ci siamo incontrati. Nell’anno di debutto alla direzione artistica della Festa del Cinema scelsi come film di apertura Truth, dove interpretava Mary Mapes, la giornalista che cadde in disgrazia - trascinando con sé anche Dan Rather - per non aver saputo dimostrare alcune pesanti accuse contro George W Bush. C’era una grande attesa per l’apertura, e il pubblico l’aspettava ansiosamente per applaudirla, ma purtroppo, all’ultimo momento, fu costretta a dare forfait: cercai di rimediare chiedendole un videomessaggio, e lei si prestò scusandosi con il pubblico.
Per me la vicenda era chiusa, ma due anni dopo ci incontrammo a Cannes, dove fu lei a venirmi incontro per dirmi: «Io mi sento in debito con te e con la Festa del Cinema». Rimasi senza parole, perché si vedeva negli occhi che era assolutamente sincera: stabilimmo subito una data, e lei regalò al pubblico della capitale un incontro memorabile. Per tutto il periodo in cui rimase a Roma fu affettuosa, disponibile e regale, ma mi diede anche una lezione che non dimentico: durante l’incontro pubblico le chiesi se avesse avuto difficoltà a interpretare una omosessuale in Carol, il bel film di Todd Haynes tratto da Patricia Highsmith. Senza perdere minimamente la calma, e con il sorriso sulla bocca, mi spiegò che il suo mestiere era quello di attrice, e che nessuno le aveva mai chiesto quali fossero state le difficoltà a interpretare un elfo nel Signore degli Anelli.
Partì in quel momento un applauso lunghissimo, per me un po’ umiliante, e l’incontro scivolò via sino al termine in maniera trionfale, con il pubblico in piedi che non voleva farla andare via. C’è un altro episodio che mi sento di rivelare di quel soggiorno romano: il mio compleanno coincideva con il giorno del suo evento, e decisi quindi invitarla alla festa. Quando lo seppe, Valerio De Paolis mi disse che conservava in ufficio la Coppa Volpi che lei aveva vinto interpretando Bob Dylan in I am not there, di cui lui era distributore: Cate era dovuta andare via da Venezia prima delle premiazioni e non era riuscita a ritirarla. Decidemmo con Valerio di portare la coppa alla festa, e gliela presentai a sorpresa, scherzando sul fatto che era la prima volta che un premio di Venezia veniva consegnato a Roma. Lei rimase a bocca aperta e mi invitò a brindare dalla coppa: anche in quel gesto c’era tutto il suo essere glamour con nonchalance.
C’è un altro elemento che la rende unica: Cate non si sente una intellettuale, ma ha un’attenzione sincera nei confronti dell’arte e della cultura. Ha uno spirito autenticamente idealista, e ho assistito personalmente all’emozione con cui ha voluto conoscere Renzo Piano, che ritiene responsabile di avere reso il mondo più bello. Riguardo a ogni forma di espressione artistica sostiene si debba dare sempre il proprio meglio con umiltà e abnegazione: «Lavoro, lavoro e ancora lavoro», mi spiegò, «bisogna dare il meglio anche quando si tratta di operazioni commerciali». Come successe nel caso di Elizabeth, ogni film in cui compare è migliorato enormemente dalla sua interpretazione, al punto da rimanere inconcepibile senza la sua presenza. Uno dei tanti motivi per cui l’ammiro è che a differenza di altri interpreti, infinitamente meno bravi, non ha affatto rinnegato l’esperienza lavorativa con Woody Allen, e ha distinto la grandezza dell’artista rispetto alle accuse per le quali è stato ripetutamente assolto. In un primo momento si limitò a dichiarare «c’è molto dolore in quella famiglia e spero che riescano a trovare la serenità e la pace», ma, poi, di fronte a qualche commento malevolo aggiunse che «eventuali crimini devo essere giudicati dai giudici e non a mezzo stampa».
È una donna ferma sulle proprie convinzioni, che ha radicato la propria forza nel rapporto con la famiglia composta dal marito e quattro figli, di cui una adottiva. A frequentarla, traspaiono tuttavia momenti di malinconia: ha perso il padre, originario del Texas, quando aveva dieci anni, e per anni ha visto ogni giorno la versione televisiva di MASH perché il protagonista Alan Alda le ricordava il genitore. «Sono due gocce d’acqua - racconta - e mi sembrava un modo di tenerlo in vita». Oggi però racconta sorridendo che il rimanere incollata di fronte al televisore l’ha fatta diventare anche una grande fan del cinema horror, in particolare della serie Halloween, della quale si definisce un’esperta.
Fa un po’ impressione sentire questi racconti dalla raffinatissima interprete di Sofocle, Ibsen e Tennessee Williams, ma Cate non ha mai perso la dimensione del gioco: «È tutto così precario in questo mestiere - ti spiega - che è più saggio divertirsi». E a chi le fa notare che è difficile superare i risultati che già raggiunto risponde: «Io sono convinta di una cosa: se devi fallire è meglio fallire in grande».