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 2020  giugno 07 Domenica calendario

Erdogan l’africano

Gli sforzi della Turchia per estendere la sua influenza in Africa, di cui abbiamo avuto un segnale con il ruolo che Ankara ha svolto nell’operazione per ottenere il rilascio della cooperante Silvia Romano rapita in Kenya, hanno alcuni precedenti storici, che però non devono essere sopravvalutati. Con la conquista dell’Egitto, del Levante (Libano, Siria e Israele di oggi) e dell’Hijaz (la parte occidentale dell’attuale Arabia Saudita), strappati ai mamelucchi nel gennaio 1517, il sultano Selim I estese la sua autorità su tutti i centri storici e religiosi dell’islam, tra cui la Mecca, Medina, Gerusalemme, Damasco e Aleppo. Soprattutto ricevette in dote il titolo di califfo, cioè guida della comunità musulmana universale, detenuto fino ad allora dai sovrani mamelucchi. Avendo annesso la Mesopotamia pochi anni prima, il sultano poteva vantarsi di aver sommato il califfato della grande civiltà musulmana – quello di Bagdad – all’impero romano, di cui si proclamava legittimo erede fin dalla conquista della sua capitale, Costantinopoli, nel 1453.

Si discute ancora se il fattore decisivo del successo ottomano sia stato il controllo del mar di Marmara e del bacino del Danubio fino a Belgrado, i due capisaldi che avevano permesso all’impero romano d’Oriente di sopravvivere di mille anni a quello d’Occidente, oppure il controllo della Mezzaluna fertile; quasi sicuramente fu l’inedita combinazione tra i due. Il baricentro dell’impero – in termini geopolitici, storici, culturali ed economici – fu però sempre europeo o, per meglio dire, anatolico-danubiano.
Con il mondo arabo, invece, gli ottomani ebbero un rapporto distante e talvolta conflittuale. E proprio dagli arabi venne il primo tentativo di secessione di una regione a maggioranza musulmana, l’Egitto di Mehmet Ali, agli inizi dell’Ottocento, dopo che l’autorità del sultano era stata minata dall’invasione napoleonica. Tra il 1830 (Algeria) e il 1882 (Egitto), gli ottomani persero quasi tutta l’Africa del Nord; l’ultima tessera, la Tripolitania, cadde nel 1912. In tutte quelle occasioni, come poi anche in Medio Oriente dal 1914, la popolazione araba locale fu sempre più propensa a collaborare con gli invasori europei che con i sultani ottomani.
Appare quindi arduo far risalire gli attuali conati africani di Recep Tayyip Erdogan a una presunta strategia «neo-ottomana». Anche perché la strategia «neo-ottomana» dei governi dell’Akp, il suo partito, se mai è esistita, è oggi morta e sepolta; e perché, oggi, l’azione turca appare più guidata dalle piccole opportunità che via via sembrano profilarsi che da un consapevole senso della direzione.
La cosiddetta «strategia neo-ottomana» era in realtà l’ipotesi teorizzata da Ahmet Davutoglu, docente di Relazioni internazionali, diventato ministro degli Esteri e poi primo ministro di Erdogan: riannodare tutti i fili della tradizione turca e ottomana – con l’Europa, con il mondo turcofono fuori dalla Turchia, con i musulmani del mondo intero e, infine, con l’insieme del Medio Oriente e del Nord Africa. Lo scopo: dare al Paese quella «profondità strategica» (Stratejik derinlik, titolo di un suo libro del 2001) persa con la scomparsa dell’impero ottomano. La condizione per attuare quella strategia era, secondo la formula di Davutoglu, «zero problemi con i vicini»: per potersi ricongiungere con l’Europa, le relazioni non solo con la Grecia e la Bulgaria, ma anche con la Siria, l’Iran e la Russia, e persino con l’Armenia e con i curdi, dovevano cessare di essere burrascose.
Nei primi anni, il governo Erdogan cercò di attuare scrupolosamente i dettami di quella strategia, sostenendoli con una crescita economica spettacolare. La decisione del 2003 di rifiutare l’uso della base di Incirlik per le operazioni militari contro l’Iraq di Saddam Hussein segnò platealmente il tentativo di riequilibrio geopolitico del Paese, la cui principale (e quasi unica) dimensione strategica era stata fino ad allora il legame con Washington: Erdogan si allineava all’asse Parigi-Berlino, aprendo nel contempo al suo storico rivale russo. Contestualmente, furono accolte tutte le richieste dell’Unione europea per avviare il processo di adesione: fu abolita la pena di morte, sostenuto il piano di Kofi Annan per la riunificazione di Cipro, iniziate le trattative di pace con gli indipendentisti curdi, abolito l’articolo 301 del codice penale che puniva l’insulto alla nazione, riaperti i contatti con l’Armenia, normalizzate le relazioni con la Grecia e infine, ma non meno importante, esclusi i militari dalla vita pubblica.

Tra il 2005 e il 2013, quell’edificio strategico andò progressivamente in rovina, fino a crollare definitivamente. Il primo colpo di maglio venne dal referendum sulla Costituzione europea in Francia, in vista del quale il fronte del Sì e il fronte del No fecero a gara a chi si fosse mostrato più antiturco; due anni dopo, il neoeletto presidente Sarkozy decise di congelare il processo di adesione della Turchia all’Ue, incrinando così il principale pilastro della strategia della «profondità strategica». Il tragico fallimento delle primavere arabe, che si ispiravano al modello turco, fu il colpo di grazia.
Da allora, la politica estera della Turchia fa pensare a quelle galline che continuano a correre per qualche secondo dopo che è stata tagliata loro la testa. Dopo le elezioni del giugno 2015, in cui l’Akp perse il 9% dei voti e la maggioranza assoluta in parlamento, privo ormai di strategia, Erdogan riprese senza preavviso la guerra contro gli indipendentisti curdi, vecchio pallino dei militari; il fallito colpo di Stato del 2016 permise di far fuori la vecchia guardia kemalista, lasciando vacanti posti per chi fosse disposto, per calcolo o per convinzione, a servirsi della facciata islamista di Erdogan per tornare alla tradizionale politica turca, una sorta di «neo-kemalismo militar-islamista». Le scelte fatte nel frattempo non permettevano però di rimettere semplicemente le lancette indietro di 15 anni: il rapporto con l’Europa era interrotto, quello con gli Stati Uniti si era guastato, i despoti arabi avevano schiacciato le rivoluzioni sostenute da Ankara, la Russia e l’Iran si erano messi a sostenere Assad, il nemico numero uno, e gli storici legami con Israele erano andati in frantumi. Invece di «zero problemi con i vicini», ora la Turchia aveva molti problemi con tutti i vicini.

In seguito a quel disastro, a Erdogan e ai suoi militari sono rimaste poche carte: i 3,6 milioni di profughi con cui ricattare l’Europa, qualche banda di irriducibili tagliagole in Siria e un precario canale con Mosca e forse con Teheran, gli amici dei suoi nemici. Ad esse, si è aggiunta l’Africa; ma, come per certi giocatori incalliti rimasti a corto di risorse, l’azzardo africano è un rischio molto elevato per una posta molto esigua e incerta. Negli anni del «miracolo economico» (2002-2014, durante i quali il prodotto del Paese è cresciuto quasi cinque volte), l’Africa era per Ankara solo un potenziale mercato di espansione. Gli scambi bilaterali con il continente hanno raggiunto, a oggi, la cifra di 26 miliardi di dollari: molto se paragonato ai 5 miliardi di inizio secolo, ma poco rispetto ad altri partner nel mondo. Nell’insieme del continente africano la Turchia esporta poco più che nel Regno Unito e ne riceve il 4,2% di tutte le sue importazioni, meno della metà di quanto arrivi dalla Cina o dalla Germania. Erdogan ha portato il numero di ambasciate in Africa da 12 a 41, e ha aperto 22 uffici dell’Agenzia turca di sviluppo e cooperazione; se è vero che l’influenza di un Paese cresce proporzionalmente ai suoi investimenti, allora la Turchia ha fatto passi da gigante, dai 100 milioni di dollari del 2002 ai 6,2 miliardi di oggi. La leva economica potrebbe aver influenzato la decisione dei governi di Senegal, Sudafrica, Angola, Ruanda, Etiopia, Mali, Tanzania, Benin, Niger, Madagascar, Zambia e Ghana di chiudere le scuole di Fethullah Gülen, il predicatore già alleato di Erdogan entrato poi in rotta di collisione con lui (e accusato di essere il fomentatore del tentato colpo di Stato del 2016). Tutto è relativo, però: oggi la Cina investe in Africa 72 miliardi di dollari (11 volte di più della Turchia), gli Stati Uniti 31, gli Emirati 25 e il Regno Unito 17; se, per assurdo, la Cina sostenesse Gülen, sarebbero forse le scuole sponsorizzate da Erdogan a essere chiuse.
Dal punto di vista geostrategico, l’interesse per il Sudan e la Somalia è stato analizzato in chiave anti-saudita: nel 2017, Ankara si è impegnata a ricostruire (con i soldi del Qatar) il porto sudanese di Suakin, base ottomana sul mar Rosso dal 1517 al 1880, sulla costa di fronte a Gedda, acquisendo il diritto di sfruttamento civile e militare; lo stesso anno ha stipulato con la Somalia (o quel che ne resta) un accordo per l’apertura di una base militare a Mogadiscio, contestualmente a una mediazione per la riunificazione con il Somaliland (l’ex Somalia britannica, indipendente de facto e potenzialmente ricca di petrolio). Tra Somalia e Somaliland, però, sulla punta del Corno d’Africa, si trova lo Stato del Puntland, formalmente parte della federazione somala, ma in pratica anch’esso indipendente e alleato alla coalizione saudita, ostile ad Ankara.
Dietro al coinvolgimento in Libia c’è forse il desiderio di riacquistare un briciolo di legittimità internazionale, con l’appoggio al governo «ufficiale» di Fayez al-Serraj; c’è senz’altro il desiderio di spostare su un altro scacchiere la rivalità con l’Arabia Saudita, sponsor – con Egitto ed Emirati – dell’«altro» governo libico di Khalifa Haftar; c’è, forse, l’idea di creare un asse con la Tunisia e l’onnipresente Qatar, derisoria replica in sedicesimo della «profondità strategica». E c’è, di sicuro, la volontà di ridisegnare, con la Libia, i corridoi marittimi del Mediterraneo in modo da ritagliarsi l’accesso a parte dei giacimenti di gas naturale al largo di Cipro e tagliare a metà il futuribile gasdotto EastMed deciso a gennaio da Grecia, Cipro e Israele. Il problema è che il corridoio turco-libico dovrebbe partire dalla Cirenaica, ora controllata da Haftar.

Le temerarie scommesse geostrategiche di Erdogan poggiano dunque su basi molto fragili: sia in Somalia che in Libia, la chiave di volta si trova in regioni attualmente schierate sul fronte anti-turco. Cui s’aggiunge il rischio, in Libia, di collidere una volta di più con la Russia, alleata di Haftar. D’altra parte, il solo fatto che Ankara cerchi di entrare in Africa passando per la porta di Paesi di fatto inesistenti come la Libia e la Somalia la dice lunga sulla forza attuale del Paese. Le chance di «Erdogan l’Africano» di mettersi nei panni del sultano sono scarse: fa il rodomonte in patria, grazie al sostegno dei militari, ma non può ripagarli offrendo loro prospettive di gloria all’estero. La «profondità strategica» si è arenata a pochi chilometri dall’uscio di casa.