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 2020  giugno 07 Domenica calendario

L’epistolario fra Attilio Bertolucci e la moglie

Leggere Attilio Bertolucci è come scoprire un versante segreto, a parte, del nostro Novecento poetico: si pensi all’estensione e alla durata del romanzo in versi La camera da letto. Anche la donna, la figura femminile tante volte cantata, prima, dentro e oltre il romanzo, è diversa, singolare. Qualcosa di misterioso aleggia intorno alla passione amorosa per Ninetta, come era soprannominata Evelina Giovanardi, sua fidanzata e poi sua sposa dal 1938 (qui sopra insieme). È la donna della vita, un affetto dolce e domestico, tenero, eppure anche l’oggetto di un risorgente desiderio, di una inquietudine gelosa.

Le lettere che i due si scambiarono prevalentemente negli anni Trenta, quando erano fidanzati, con qualche rara appendice negli anni Quaranta e Cinquanta, ci sono ora restituite in un’ampia raccolta, che si chiude su una missiva inviata da Attilio nel 1966, evocando anche Ninetta, ai figli registi Bernardo e Giuseppe. Il libro, affettuosamente curato da Gabriella Palli Baroni, grande esperta di Bertolucci (la maggiore, insieme a Paolo Lagazzi), si divide in due sezioni: la prima di testi poetici dedicati alla donna e alla famiglia, minutamente commentati, la seconda costituita dal carteggio; in tutto, tra lettere, biglietti, cartoline e un telegramma, 234 messaggi, 146 di Attilio e 88 di Ninetta (Il nostro desiderio di diventare rondini. Poesie e lettere, Garzanti).
Caliamoci subito nell’atmosfera palpitante di questo amore al suo fiorire, tenace e vischioso: i due fidanzati si scrivono moltissimo tra 1934 e 1935, quando Ninetta studia Lettere a Bologna e Attilio è ancora a Parma. Conosciutisi al liceo, sono giovani (lui nato nel 1911, lei nel ’12), ma la loro unione è immaginata come un’arca di Noè (Attilio) già a quei tempi. È un nido fatto per l’amore e la generazione, per il progetto di una famiglia e per sfidare il tempo, l’insidia dell’ignoto, a partire dai rispettivi patemi (lui con le sue extrasistoli conturbanti – a cui dedicherà una famosa prosa – e lei con emicranie e stanchezze). I due si scrivono da dentro un’intimità assoluta, esclusiva. «Ti adoro», lo vezzeggia lei, «Mia adorata», la appella lui. I loro mali e le loro nevrosi, specie di lui, sono il propellente di un amore inteso come confidenza e fiducia assoluta, come protezione e riparo («Io adoro tutto in te, anche le tue debolezze (…)», scrive lei l’8 gennaio 1934).

I due vagheggiano, poco più che ventenni, il tempo che traverseranno, i figli che avranno. Di più, sognano di diventare vecchi insieme, di essere interminabile, amorosa compagnia l’uno per l’altra: «Cara noi ci vorremo sempre bene, anche quando saremo divenuti vecchi; è una mia aspirazione quella di poter invecchiare con te. Quando si è vecchi, si è vuoti e secchi di linfa, ma restano i sentimenti e noi ci vorremo tanto bene e ci ricorderemo di tante cose», scrive lui l’11 giugno 1935. Certo, parlano di libri e film, di musica e d’arte, di maestri, delle epifanie dei giorni, ma è l’abisso di una corrispondenza amorosa senza fine che li attira (il loro amore durerà quanto il secolo, infatti), per sfidare l’ansia di un tempo che non si può trattenere.
Ansia e vertigine, riparate con i fili di un nido da intrecciare anche con le parole: quelle di una poesia fatta di verità. Scrive Attilio il 24 gennaio 1934: «Vorrei dirti, come fanno i poeti orientali, che sei bella come una città di mare, come un dattero, come una tenda di Gerusalemme. Non è letteratura, o se la è, la letteratura è talmente entrata in me, che è sincera».