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 2020  giugno 07 Domenica calendario

Dialogo sui classici tra McEwan e Rushdie

«Da quanto ci conosciamo?». «Da tanto, tanto tempo». Ricordate la prima volta che vi siete visti? Ian McEwan riflette: «È stato a Covent Garden, Londra, all’inizio degli anni Ottanta. Era prima che uscisse  I figli della Mezzanotte vero?». Salman Rushdie conferma: il suo romanzo d’esordio era appena stato accettato dall’editore Jonathan Cape, che lo pubblicò nel 1981 e che gli valse il Booker Prize. Nel 1983 la rivista «Granta» inserirà entrambi nella lista dei giovani scrittori del decennio, insieme a Martin Amis, Kazuo Ishiguro, Julian Barnes, Rose Tremain e altri. Ma l’amicizia sarebbe comincia al festival letterario di Lisbona. Rushdie se lo ricorda bene: «Estate 1988, per me l’ultima estate innocente, poco prima dei Versi satanici». 
Ian McEwan e Salman Rushdie non si vedono da un po’, il rapporto che li lega è rilassato e caldo, senza smancerie. «La cosa triste – spiega McEwan – è che Salman, con altri amici letterati, ha deciso di andare a vivere a New York. Io mi sono trasferito nella campagna inglese». Prima della fatwa del 1989 che colpì lo scrittore anglo-indiano, McEwan, Rushdie e Martin Amis si incontravano spesso. «Cenavamo insieme regolarmente noi tre – dice Rushdie –. Tu, Ian, sei l’unico rimasto lì. Martin, James Fenton, io: tutti qui negli Usa». Oggi entrambi sono appena sbarcati nelle librerie italiane con i loro nuovi romanzi. Se non ci fosse stata l’emergenza pandemia, forse i festival letterari, le fiere editoriali, i book tour avrebbero potuto farli incrociare. Invece è «la Lettura» a riunirli virtualmente in una videoconferenza che, grazie alle aperture ampie delle web cam, offre inquadrature che comprendono librerie, caminetti, scrivanie e mostrano gli scrittori nelle loro officine. Dai ricordi emerge una comunità di letterati legati da un sentimento importante di solidarietà e vicinanza. «Per me lo è stato sicuramente: quell’amicizia che mi ha circondato dopo i Versi satanici ha avuto un grandissimo valore, mi ha aiutato a passare attraverso anni difficili» dice Rushdie. McEwan precisa che però sono anche riusciti a divertirsi «anche se c’era la scorta al piano di sopra. Ti rivedo entrare di corsa in casa con il cappello da baseball in testa». Quel cappello Rushdie ce l’ha ancora: «Lo indosso spesso».
L’amicizia è anche ammirazione per il lavoro dell’altro: loro si sono letti reciprocamente con piacere nel corso degli anni perché, spiega McEwan, «quando la letteratura è un romanzo, non puoi tenere fuori chi sei. Non si può dire a uno scrittore: niente di personale, ma il tuo romanzo fa schifo. Dentro c’è sempre qualcosa di te. Ecco perché molto spesso una critica negativa ti rovina la giornata». «E se ti piace qualcuno ti piace anche quello che fa, la sua voce – conferma Rushdie —. Leggere gli amici è sempre bello, ti dà il senso della loro vita interiore». 
Ian McEwan ha appena pubblicato da Einaudi Lo scarafaggio, una novella contro la Brexit liberamente ispirata alla Metamorfosi di Franz Kafka, con la differenza che qui a risvegliarsi nelle grosse sembianze umane, appartenenti al primo ministro inglese Boris Johnson, è la blatta. Lo scrittore costruisce una satira esilarante e feroce della situazione politica attuale, con un premier che si inventa l’«inversionismo in un solo Paese»: il sistema economico e finanziario ribaltano i loro rapporti di causa ed effetto per cui i dipendenti pagano i datori di lavoro, i commercianti i clienti, gli albergatori gli ospiti e via dicendo. Lo spirito dello scarafaggio prende il sopravvento in tutto il Regno Unito: una messa in scena che unisce disperazione e sberleffo. L’ironia non manca neppure nel Quichotte (Mondadori) di Salman Rushdie, romanzo picaresco che, come suggerisce il titolo, prende spunto dal personaggio di Cervantes: qui il Cavaliere dalla triste figura si innamora di una star tv e si crea, come Geppetto con Pinocchio, un figlio di nome Sancho che ancora deve diventare umano. Rushdie fa una tripla giravolta in un romanzo metanarrativo dove Quichotte è la creazione letteraria di uno scrittore di spy story, dalla vicenda personale molto simile a quella dello stesso Rushdie. Nel libro riesce a mettere tutto insieme: i riferimenti letterari, la situazione politica attuale, il mondo mediatico, la strage di oppioidi che da anni sconvolge l’America.

Perché due dei più influenti scrittori del mondo decidono di riscrivere in chiave contemporanea un classico della letteratura? 
IAN McEWAN — Se ami la letteratura conta poco se questi testi sono del XVI, XVIII o XX secolo. Esistono in un modo quasi eterno per noi tutti, fanno parte del mondo che abitiamo. Un libro che ami ti porta alle cose che ami, non al passato. Credo di aver letto La metamorfosi quando avevo 16 anni, mi ha colpito il suo celebre incipit, e poi mi sono ritrovato un bel giorno a invertirlo pensando a uno scarafaggio che diventa un enorme umano. Sono stati due mesi assolutamente fantastici, passati a scrivere questa novella che avevo dentro da tempo ma che è uscita in un momento di disperazione. 
SALMAN RUSHDIE — Credo che anche Kafka abbia scritto La metamorfosi molto velocemente... 
IAN McEWAN — Sì, qualche tempo fa ho avuto l’occasione di tenere tra le mani il suo taccuino: non c’erano quasi cancellature. Emozionante.
SALMAN RUSHDIE — Io ho avuto un’emozione simile in una biblioteca di Philadelphia, dove un ricco collezionista ha raccolto libri antichi, centinaia di manoscritti, molte prime edizioni dell’Ulisse di Joyce. Aveva anche una prima edizione di Don Chisciotte originale, rilegata in cera. 
Anche per lei è stata un’ispirazione repentina ?
SALMAN RUSHDIE — Ho amato molto il modo di invertire Kafka di Ian. Ma io volevo scrivere un romanzo on the road, che mi portasse fuori dalla mia comfort zone di New York, in giro per il Paese. All’inizio pensavo che non dovesse neppure essere un romanzo, ma una non-fiction che mi avrebbe permesso di viaggiare negli Stati Uniti per vedere che cosa stava succedendo. Poi ho chiesto a mio figlio minore di venire con me perché pensavo che sarebbe stato bello avere anche l’opinione della generazione più giovane. 
Ha accettato? 
SALMAN RUSHDIE — Sì, purché lo lasciassi guidare. Poi, per una sorta di serendipità, mi è stato chiesto di scrivere qualcosa su Shakespeare e Cervantes: era il 2016, l’anno del doppio anniversario della morte. Mi sono messo a rileggere il Don Chisciotte e ho pensato: caspita, voglio usare anch’io la mia fantasia. Così quello che avrebbe dovuto essere un viaggio tra padre e figlio, reali, è diventata una fiction, la mia versione di Don Chisciotte. Ma credo sia corretto dire che i libri di solito vengono tutti da altri libri, si sviluppano dall’esperienza dello scrittore ma anche dalle sue letture.
IAN McEWAN — Abbiamo iniziato tutti così, come lettori.
Julian Barnes infatti ha detto che alcuni scrittori cercano di scrivere cose nuove, c’è chi ci riesce, ma è importante non dimenticare che molto è già stato fatto. 
SALMAN RUSHDIE — Sì certo, è stato già fatto tutto, qualsiasi storia a cui puoi pensare è già stata raccontata da qualcuno, però è importante fare la propria. Éric Rohmer ha girato i Sei racconti morali: sei film con la stessa storia, l’uno completamente diverso dall’altro. Quindi sì, è stato fatto tutto, ma in un certo senso non è stato fatto niente.
IAN McEWAN — Salman, ricordi che negli anni Sessanta uscì un libro di Christopher Booker che si intitolava Ci sono soltanto 7 trame? Al di là della trama c’è qualcosa che provoca sempre cambiamenti. Dieci anni fa non avrei potuto scrivere niente di così disperato come ho fatto ora sulla Brexit, non avrei potuto parlare dell’epidemia che stiamo attraversando. Quando si tratta di politica, cultura, tecnologia, della vita privata, tutto cambia continuamente. In questo senso non sono completamente d’accordo con Julian.
I vostri due libri colgono segnali di un mondo, soprattutto occidentale, in declino: la Brexit, la pandemia, la prevalenza dei social media, il razzismo, la chiusura dei confini.
SALMAN RUSHDIE — Una delle cose che Ian e io vogliamo fare è proprio questo: scrivere della contemporaneità cercando di trarre qualcosa che abbia valore nel tempo. È rischioso: se sbagli, il tuo libro può apparire come il giornale di ieri, superato. 
IAN McEWAN — Abbiamo parlato spesso della nostra ammirazione per gli scrittori americani della seconda metà del XX secolo che si concentrano non tanto su infinite questioni esistenziali, ma sul qui, l’ora, le città, le strade, le vite delle persone. Bisogna sporcarsi le mani, immergerle fino in fondo nel barile del presente. 
SALMAN RUSHDIE — Sì, sono d’accordo. In uno dei suoi testi sulla corrida, ora non ricordo quale, Hemingway dice che il migliore matador è quello che si avvicina di più al toro. Se il toro è lontano due metri non è così eccitante, non ci vogliono particolari qualità. Ma se il toro sta per incornarti, ogni movimento deve essere perfetto, altrimenti finisci male. Ho sempre pensato in questo modo all’attualità: cerco di catturarla, di avvicinarmi al toro. È pericoloso ma entusiasmante. 
IAN McEWAN — Vero, abbiamo preso le nostre cornate, di tanto in tanto. Ricordo che nel 1962 Philip Roth scrisse un saggio sul fatto che lo scrittore americano a metà del XX secolo incontra grandi difficoltà a comprendere, descrivere, rendere credibile la realtà.
«Scrivere narrativa americana» in «Perché scrivere». Dice Roth:«È una realtà che sconcerta, disgusta, manda in bestia, ed è anche motivo di imbarazzo per la nostra scarsa immaginazione. L’attualità si fa beffe del nostro talento, e ogni giorno saltano fuori figure che sarebbero l’invidia di ogni romanziere».
IAN McEWAN — Ora gongolerebbe perché la realtà è andata ancora oltre e lui, dopo quel saggio, ha scritto alcuni dei suoi libri migliori. Quello che stava dicendo era che gli americani sono tutti pazzi. 
SALMAN RUSHDIE — Quando ho scritto L’incantatrice di Firenze, il mio unico romanzo storico, sono dovuto tornare al XV, al XVI secolo, e ho dovuto studiare, fare ricerche, imparare. Ho sudato parecchio, però è stato molto utile. Questa volta avere Cervantes seduto accanto che mi suggeriva cose fantastiche è stato bellissimo.
Seppure in modo diverso, nei vostri libri prevale il registro satirico. Il mondo di oggi può essere raccontato soltanto così? Siamo oltre il ridicolo? 
SALMAN RUSHDIE — Il mondo è satira, non saprei come guardare le cose altrimenti. È diventato così esageratamente bizzarro da creare qualche difficoltà per noi scrittori. La satira è un vecchio strumento e uno dei motivi per cui la usiamo è che di solito alla gente che la subisce non piace. È un modo per gestire il potere, molto efficace perché entra sotto la pelle delle persone. Non so se Boris Johnson ha letto il tuo libro, Ian, ma se lo ha fatto di certo non gli è piaciuto.
IAN McEWAN — (Ride) Non mi ha detto niente in proposito. Lo scarafaggio è una satira, ma è anche una presa in giro. E in effetti, a parte il fatto di prendere a prestito l’incipit della Metamorfosi, mi sembra che il mio piccolo libro debba più a Una modesta proposta di Jonathan Swift che a Kafka. Ho scritto quello che vedevo in quel momento.
Quindi: in che misura pensate che la realtà debba entrare nei romanzi e che gli scrittori debbano raccontare la contemporaneità?
IAN McEWAN — Dalla realtà è difficile scappare, anzi a volte non hai proprio scelta: se hai carta e penna in mano devi trovare qualcosa che abbia a che fare con oggi e non con il XVII secolo. Però questa questione dell’engagement non è una regola generale: io non potrei mai dire che cosa un altro scrittore deve o non deve fare. C’è sempre la tentazione del manifesto. Non è nemmeno giusto dire che le uniche cose che puoi fare sono quelle che sai fare. Alcuni scrittori, a volte, possono osare un po’ di più. Ci sono quelli che vogliono scrivere «nel ventre della balena», per citare il titolo di un celebre volume di saggi di George Orwell, cioè scrivere soltanto della vita intima senza nessun riferimento politico, sociale. Altri parlano di politica, di fantascienza, di qualsia cosa: non è importante, lasciamo che tutti i fiori fioriscano. 
SALMAN RUSHDIE — Parecchi anni fa, quando eravamo giovani, ho scritto un piccolo libro intitolato Fuori dalla balena, proprio in risposta alla riflessione orwelliana, secondo cui non c’era la possibilità di scappare da questo mondo, il mondo sarebbe comunque entrato nella tua vita. Ma vorrei tornare a quello che dicevi a proposito del fatto che devi di più a Swift che a Kafka. A un certo punto, leggendo il mio Quichotte, ho pensato che dovevo molto più a Pinocchio di Collodi che a Cervantes. Il rapporto padre/figlio ha molto a che fare con il fatto che Pinocchio vuole diventare un bambino vero, come Sancho, che è una costruzione di Quichotte. Tu hai Swift e Kafka. Io Cervantes, Collodi, ma da qualche parte anche Ionesco, Voltaire: se uno legge, si trova a usare tutto ogni volta.
IAN McEWAN — Sono presenze costanti. A volte soltanto dopo scopri che hai citato questo o quello scrittore: in un certo senso organizzi le idee che hai in testa come se spostassi i mobili della tua casa. Puoi cambiare combinazione, ma i mobili sono quelli.
SALMAN RUSHDIE — È vero. Volevo che il mio Quichotte fosse un ottimista, ottimista di fronte a qualsiasi genere di problema, ottimista in modo ridicolo. Infatti crede che questa donna irraggiungibile, bellissima, sarà sua comunque, perché l’amore troverà la strada. 
IAN McEWAN — Come Candide di Voltaire.
SALMAN RUSHDIE — Esatto, ma soltanto quando ho finito mi sono ricordato che il titolo esatto è Candide, o l’ottimismo. Non ci ho pensato neppure una volta mentre scrivevo e invece il mio personaggio assomiglia più a lui che a Don Chisciotte. E in modo del tutto inconscio.
IAN McEWAN — A volte scrivo una frase e poi mi dico: aspetta un attimo, questa non è mia. L’altro giorno parlavo di un personaggio distratto dai birds quarrelling in the eaves, dagli uccelli che litigano nelle grondaie . Poi ho pensato: è di D. H. Lawrence. Sono andato a cercarla e non riuscivo a trovarla. Certo, è Yates. A volte i libri che amiamo risuonano così profondamente dentro noi...
SALMAN RUSHDIE — Citazioni preterintenzionali. 
Il pericolo di una vita da lettore. 
IAN McEWAN — Forse è sottostimata l’influenza profonda che la poesia ha sulla scrittura in prosa.
SALMAN RUSHDIE — Sì. Non so tu, ma io quando scrivo tendo a non leggere altra fiction, ma solo poesia, perché questo mi costringe a fare attenzione alla lingua. 
IAN McEWAN — La poesia è la Royal Navy della letteratura, una sorta di espressione ultima, la cosa più difficile e allo stesso tempo la base.
SALMAN RUSHDIE — Oggi, in un momento così difficile, sembra esserci un ritorno, come se ci fosse il bisogno di trovare risposte nella poesia. 
IAN McEWAN — Poi nel lockdown c’è stata una certa immobilità, ed è quello che serve per leggere poesia.
Siamo dunque alle basi della letteratura. Avete un elenco di libri imprescindibili? 
IAN McEWAN— Per me non è facile fare una lista, diciamo che ruotano. Magari ci sono testi importanti che non ho più preso in mano da quando avevo 24 anni. Però vediamo: inizierei sicuramente con Amleto, il personaggio più interessante che sia mai stato creato. Intelligente, pieno di dubbi, potremmo chiamarlo l’invenzione del moderno. E poi  I saggi di Montaigne, in cui sono immerso ora, fondamentali e preziosi. Due libri che secondo me sono correlati nella nozione del sé. 
SALMAN RUSHDIE — Amleto ci ha mostrato che un’opera di letteratura può essere molte cose insieme. Non deve essere soltanto una storia d’amore, o di politica, o di fantasmi; può essere tutto questo. Atto primo storia di fantasmi; atto secondo intrighi di corte; atto terzo storia d’amore; atto quarto ancora ghost story. Ho imparato molto da questa capacità di Shakespeare di essere molteplice. 
Quali altri classici sono fondamentali?
SALMAN RUSHDIE — Le mille e una notte. Molti pensano che siano fiabe per bambini: Sinbad, Aladino e tutti gli altri. Invece sono storie per adulti. Uno dei motivi per cui i conservatori islamici non le amano è che c’è parecchio sesso e poca religione. E quindi sono molto interessanti e molto moderne. Shahrazad è tra i personaggi femminili più grandi della letteratura. Una donna capace di civilizzare i barbari semplicemente raccontando storie è bellissima, se fosse vero. 
IAN McEWAN — Un libro che ho trovato insopportabilmente noioso, anche se non sono riuscito a staccarmene, è La mon tagna magica di Thomas Mann. È strano, mi ha molto tediato, ma anche atterrito e intrigato in uguale misura. L’elemento saggistico del romanzo, per cui il protagonista ti dice qual è il significato della vita, mi porta a Middlemarch di George Eliot. Mi piace il modo in cui lei srotola la storia, facendo costantemente un passo di lato per riflettere sul mondo.
SALMAN RUSHDIE — Devo confessare che io non sono mai riuscito a finirlo. Devo riprovarci. Su Thomas Mann invece mi fai venire in mente che nel mio ultimo book tour — quando ancora esistevano i book tour — a Lubecca mi hanno portato a vedere la casa in cui è ambientato I Buddenbrook. È stato così commovente che quando sono tornato mi sono messo a rileggerlo. Ho avuto la stessa sensazione che tu hai avuto con La montagna magica: ti fai completamente assorbire da questo mondo allo stesso tempo tedioso e glorioso. 
Che cos’altro condividete?
SALMAN RUSHDIE — Credo Ulisse di James Joyce: sicuramente entrambi ci siamo tornati più volte. Non originale come scelta, mi rendo conto. L’ho letto la prima volta al college fantasticando di poter essere uno scrittore. Allora come oggi, quando lo leggo mi dico: no, non provarci nemmeno, tutto è già qui dentro. Non è difficile come si pensa e c’è molto umorismo. 
IAN McEWAN — Ulisse non se ne va mai, è sempre lì, un punto di riferimento. Anche sexy come romanzo: alcune pagine sono incredibilmente perverse...
SALMAN RUSHDIE — Per esempio dove Leopold Bloom vede la bambina con il piede torto e ne viene eccitato. 
Passiamo alla letteratura americana.
SALMAN RUSHDIE — Hemingway, mi sembra nel discorso di accettazione del Nobel, ha detto che tutta la letteratura americana deriva da Huckleberry Finn di Mark Twain. Volendo scrivere un romanzo sul viaggio l’ho riletto e ogni volta mi piace di più. È così ricco di caratterizzazioni ed è uno dei pochi libri del periodo in cui un personaggio nero viene descritto con grande empatia da un autore bianco. 
IAN McEWAN — Twain è molto importante anche per me. Adoro Roughing It (In cerca di guai):  la parte sui mormoni, a Salt Lake City, con il capo dei mormoni che ha 40 mogli e inizia a parlare. Arriva la moglie 6 e dice: hai dato una spilla alla moglie 11 e allora perché a me no; poi arriva la moglie 14 che dice: hai dato la spilla alla moglie 6 e alla 11, la voglio anch’io. Divertentissimo, folle...
SALMAN RUSHDIE — Twain è un grandissimo scrittore di viaggi. La vita sul Mississippi, Roughing it, Huckleberry Finn sono questo: andiamo e vediamo che succede. Una delle cose che ho detto ai miei studenti nel poco insegnamento che ho praticato è: tentate di disfare ciò è stato fatto. Al motto che molti sembrano seguire – scrivi ciò che sai – io aggiungerei: purché sia interessante. In caso contrario vattelo a cercare. Twain è un grande maestro dell’andarselo a cercare. Poi ci sono due romanzi di afroamericani che hanno avuto un impatto enorme sul mio pensiero. Uno l’ho letto molto tempo fa, intorno ai vent’anni, L’uomo invisibile di Ralph Waldo Ellison; l’altro, più recente ma altrettanto classico, Il canto di Salomone di Toni Morrison. Il suo libro più famoso è Amatissima, ma questo è incredibile: mi ha sconvolto e me l’ha fatta amare moltissimo. Usa la Bibbia e García Márquez intrecciando la saga di una famiglia americana, una delle cose più belle che abbia letto.
L’opera di Ellison non è molto nota.
SALMAN RUSHDIE — È uno straordinario lavoro di modernismo che sfiora il realismo magico, ma è anche qualcosa di molto serio sul peccato originale americano: il razzismo e la schiavitù, affrontati con una letteratura davvero alta. Ellison non era un attivista politico, non era il Baldwin della situazione, ma questo libro forma l’immagine del nero e del suo destino.
IAN McEWAN — Non li conosco bene, li ho letti tanto tempo fa. Invece se intendiamo la letteratura in senso largo, come spero, io direi anche le Lettere inglesi, una raccolta di brevi saggi di Voltaire. A un certo punto venne qui, in Inghilterra, e fu molto impressionato dai funerali di Stato riservati a Isaac Newton. Andò al Parlamento e fu colpito del fatto che già nel 1689 fosse stato approvato il Bill of right: lo riteneva una forma evoluta di democrazia . Il libro è una celebrazione dell’Inghilterra da parte di un francese: non ne esistono molte. È anche uno dei primi esempi di divulgazione scientifica. Ci sono due capitoli squisiti in cui parla di ottica, per persone che non ne sanno nulla. Poi non voglio dimenticare i racconti di Borges: La biblioteca infinita, L’Aleph e gli altri hanno davvero modificato il modo in cui vediamo il mondo e lo hanno fatto in modo straordinario. Ricordo che il nostro amico Christopher Hitchens lesse ad alta voce a Borges, per due sere successive. Entrambi citavano a memoria poeti, inglesi soprattutto, concordando su Kipling in particolare. La serata si fece scivolosa quando Borges iniziò a elogiare la dittatura militare in Cile. Hitch disse solo: non sono assolutamente d’accordo, e deviò la conversazione. 
SALMAN RUSHDIE — Già, la visione politica non era certo il punto di forza di Borges. 
IAN McEWAN — Gliela perdoniamo perché scriveva troppo bene. 
SALMAN RUSHDIE — Ricordo di aver preso in mano la prima raccolta di racconti di Borges in una libreria quando ero studente a Cambridge. Non sono riuscito a mettere giù il libro finché non mi hanno detto: se vuoi continuare devi comprarlo. Però davvero, ne so a memoria alcune parti.
IAN McEWAN — Un altro libro che ha molto formato la mia visione del mondo è 1984 di George Orwell. Non è ben scritto – Orwell era molto malato al tempo – però è tra i grandi libri sul totalitarismo.
SALMAN RUSHDIE — È fantastico, anche se con Orwell ho un problema: nella storia non c’è mai stata una vittoria completa del totalitarismo, c’è sempre stata, per quanto piccola, una forma di dissenso. Faccio fatica ad accettare questa idea. Naturalmente spero che non succeda mai.
IAN McEWAN — È un avvertimento contro il pericolo totalitario, valido anche oggi che, oltretutto, ci sono pure i mezzi.
SALMAN RUSHDIE — Per quanto riguarda la letteratura latinoamericana non voglio dimenticare Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez. Ho letto tutte le sue opere con grande attenzione, ma penso che questo sia un libro bello in modo insolito, ha avuto un impatto colossale su tutta la letteratura. 
IAN McEWAN — Sono d’accordo: io ho recentemente letto L’amore ai tempi del colera che senz’altro dovrebbe essere tra i capolavori mondiali.
SALMAN RUSHDIE — Tra i quali metterei anche La camera di sangue di Angela Carter, libro perfetto perché c’è la contemporaneità di storie antiche. Angela ha ri-raccontato La bella addormentata, La bella e la bestia e tante altre in un modo che è rimasto con me moltissimo tempo. 
IAN McEWAN — Questo mi fa venire in mente una sua frase che mi piace molto: Era una giornata gloriosa come quelle che precedono la guerra. Straordinariamente evocativa.

Torniamo ai vostri libri e al rapporto con l’attualità. Siete molto critici con la politica, senz’altro con i leader dei vostri Paesi.
SALMAN RUSHDIE — Non credo di aver mai avuto fiducia nei politici. Oggi poi ci troviamo davanti a personaggi davvero miseri, sia negli Stati Uniti che in Gran Bretagna. In America non mi viene in mente un altro periodo in cui tutto quello che è uscito dalla bocca del presidente sia stato così falso, o sbagliato, come ora. Anche se Trump dice ciao, puoi giurarci che è una balla. E questo crea difficoltà enormi perché ci sono molte persone che gli credono. È una continua demolizione del reale. 
IAN McEWAN — Un regista bravo avrebbe difficoltà a trovare vilain così pericolosi come quelli che abbiamo oggi ai governi, gente come Bolsonaro, Erdogan, Orbán, Xi Jinping. Spero che prima o poi il pendolo si muova in direzione diversa. 
SALMAN RUSHDIE — Certamente a livello mondiale non abbiamo una guida. 
IAN McEWAN — Chi rimane? Anche Angela Merkel dovrebbe lasciare la scena... 
SALMAN RUSHDIE — Cerchiamo di essere ottimisti. In novembre l’America ha l’opportunità di portare la spazzatura fuori dalla Casa Bianca, come ha scritto una giornalista in un articolo che mi è molto piaciuto. I sondaggi dicono che Biden è 11 punti avanti, ma dei sondaggi non c’è da fidarsi.
IAN McEWAN — Certo, se non riuscite a portare fuori la spazzatura...
SALMAN RUSHDIE — Siamo fottuti. 

Credete che potrà uscire qualcosa di buono da questa pandemia che ha messo in ginocchio il mondo?
IAN McEWAN — Io ho la speranza che porti la gente a capire che effettivamente questi governi sono un problema. Sugli sviluppi dell’epidemia guardiamo tutti all’Italia per capire che cosa succederà anche a noi. La settimana scorsa ho visto un documentario sui medici italiani che hanno dovuto gestire il primo picco dell’emergenza. Sono stati straordinariamente coraggiosi.
SALMAN RUSHDIE — A soffrire di più comunque sono i giovani. Nell’età in cui dovrebbero crescere con il mondo, fare esperienza, apprendere, si sono dovuti isolare. Dovranno lottare molto per attraversare questo fuoco e trovare dentro sé stessi le risorse per passare alla nuova fase. 
IAN McEWAN — È stato più facile per noi che abbiamo entrambi più di 70 anni e viviamo comunque in una sorta di lockdown per scrivere. 
SALMAN RUSHDIE — E le vite interessanti le abbiamo già avute. Se invece non puoi uscire di casa e ancora non hai fatto niente è terribile. 
IAN McEWAN — Sì, però non durerà per sempre no? Mio figlio maggiore è un virologo e ha lavorato molto sui coronavirus, anche se non su questo. All’inzio diceva che era molto difficile trovare il vaccino, però da qualche tempo mi sembra leggermente più ottimista. 
SALMAN RUSHDIE — Ho parlato con un virologo italiano, di cui non dirò il nome perché non so se vuole essere citato, e la sua teoria è che effettivamente il virus si indebolisce gradualmente perché i ceppi più virulenti muoiono insieme alle persone. Non so se sia vera, ma io naturalmente voglio crederci.
IAN McEWAN — È un virus dalla catena di Dna molto lunga, con un sacco di geni. 
SALMAN RUSHDIE — Nel nostro gruppo Ian è sempre stato lo scrittore più interessato alla scienza... 
IAN McEWAN — Oggi siamo tutti diventati virologi. 
SALMAN RUSHDIE — Io conto sul fatto che dopotutto è nella natura delle catastrofi finire. Ora che il pianeta ci ha dimostrato che cosa è in grado di farci, possiamo riflettere su che cosa gli stiamo facendo noi. 
IAN McEWAN — Tra l’altro fermandoci ci siamo resi conto che possiamo anche rigenerarci: pensiamo a come è migliorata l’aria a New York e a Londra e altrove. 
SALMAN RUSHDIE — In India è successa una cosa incredibile: dopo oltre 35 anni l’Himalaya è tornato a essere visibile nel Nord, centinaia di chilometri lontano. Nelle città – certamente a New York – si sente che l’aria è più pulita, anche se a me piace il casino. 
IAN McEWAN — (Ride) Lo avrai di nuovo.
Come avete vissuto il lockdown?
SALMAN RUSHDIE — Io mi sono effettivamente ammalato di Covid-19, abbastanza presto, a metà marzo. Sono stato parecchio male per due settimane ma sono stato anche fortunato perché la malattia non ha raggiunto i polmoni, non ho mai avuto difficoltà respiratorie. Poi per tre settimane mi sono sentito debole, per niente in forma. Insomma, fino ad aprile inoltrato non sono stato bene, nell’ultimo mese sono stato molto meglio, ma in generale non ho scritto molto.
IAN McEWAN — Io sono stato molto fortunato perché ho passato la quarantena in una grande casa in un posto piuttosto isolato con la mia famiglia, i miei figli e i miei nipoti. Ho lavorato e non è cambiato molto nella mia vita, sono rimasto in contatto virtuale con mio figlio maggiore che non era con noi e con altri amici. Non siamo riusciti ad avere una grande vita sociale, e adesso devo dire che sono un po’ zoomed out, ne ho piene le scatole di Zoom (una delle piattaforme per videoconferenze ndr). Ma l’anno scorso sono stato in giro parecchio, quindi desideravo proprio muovermi il meno possibile nel 2020. Sono stato esaudito. Non mi sono mancati festival, aeroporti, sale d’attesa, non muoio dalla voglia di tornare alla situazione di prima, ma mi dispiace cancellare le vacanze. 
SALMAN RUSHDIE — Avrei dovuto essere in Italia per la presentazione di Quichotte e poi avevo organizzato un mese fantastico lì, durante l’estate, e anche questo non ci sarà. I book tour non sono una grande perdita. Però io rivoglio il vecchio mondo, difficile, problematico.
IAN McEWAN — In quarantena ho letto la migliore evocazione dell’Italia in un libro di Arthur Schnitzler, Il ritorno di Casanova. Mi ha riportato alla campagna italiana in primavera, al vino, al cibo, a tutte quelle cose che mi hanno fatto venire tantissima voglia di essere lì.
SALMAN RUSHDIE — Io mi sono trovato a rileggere scrittori italiani che mi piacciono molto, Calvino per esempio. È stata una sorta di esperienza vicaria, molto piacevole, del viaggio in Italia. E poi i film: L’avventura di Michelangelo Antonioni, Il gattopardo di Visconti, le prossime settimane mi aspettano Fellini e De Sica.
IAN McEWAN — Io ho visto l’adattamento dell’Amica geniale e l’ho trovato molto bello, grande cast, meravigliose scene, fantastici luoghi. Però vi voglio consigliare la mia ultima lettura, Pietro il fortunato  del danese Enrik Pontopiddan, Nobel per la Letteratura nel 1917: un romanzo sulla società di Copenaghen di fine Ottocento. Una grande scoperta...
SALMAN RUSHDIE — Interessante, lo leggerò.
Ora però è tempo di salutarsi.
IAN McEWAN — È stato bello vederti, Salman. 
SALMAN RUSHDIE — Lo stesso per me, Ian. Anche se odi Zoom, facciamolo ancora.