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 2020  giugno 07 Domenica calendario

Hong Kong tra Oriente e Occidente

Il ritorno di Hong Kong alla Cina nel 1997 fu una delle più belle pagine della diplomazia post-coloniale del Regno Unito. L’uomo che Londra aveva scelto per il governo dell’isola negli anni precedenti (Christopher Francis Patten) aveva molte qualità. Era stato presidente del partito conservatore e dieci anni dopo sarebbe divenuto commissario dell’Unione Europea per gli Affari Esteri durante la presidenza di Romano Prodi. Fece subito capire quali fossero le sue intenzioni. Sapeva che l’era coloniale era finita e che ogni tentativo per prolungare il controllo dell’isola sarebbe stato inutile e controproducente. Ma sapeva anche che negli anni dell’amministrazione britannica, soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale, Hong Kong era diventata una straordinaria macchina di intermediazione per i rapporti fra l’Asia e il mondo euro-atlantico. Bisognava tenere conto di un legittimo nazionalismo cinese, ma era necessario trovare una formula che permettesse a Hong Kong di essere, come l’Arlecchino di Goldoni, «servitore di due padroni».
A Pechino Deng Xiaoping non era più presidente della Commissione militare centrale (allora la più importante carica dello Stato); ma il Paese, sotto il profilo economico e sociale, era ancora quello creato da Deng: uno Stato formalmente comunista e fortemente autoritario, ma pronto ad accogliere un arrivo massiccio di industriali stranieri e di rispettare le regole della economia di mercato. In questa prospettiva la repressione dei moti studenteschi di Tienanmen nella primavera del 1989 fu soltanto un incidente di percorso. Quando il sipario calò definitivamente sull’Impero britannico, nel 1997, il motto idealmente iscritto sulla bandiera della città era «Un Paese due sistemi». Il bilancio, 23 anni dopo, è straordinariamente positivo. La Cina è enormemente più ricca mentre Hong Kong ha accumulato un prezioso patrimonio di esperienze e competenze di cui l’Occidente e la Repubblica Popolare hanno egualmente bisogno.
Non credo che la dirigenza cinese abbia interamente rinunciato a quel motto. Ma il clima è diverso. A torto o a ragione Xi Jinping è convinto che un Paese abitato da un miliardo e 393 milioni di abitanti e ancora fondato, almeno formalmente, su una ideologia defunta, abbia bisogno, per sopravvivere di una forte dose di nazionalismo. Hong Kong si presta perfettamente a questa esigenza. Divenne colonia inglese grazie a due guerre ( 1839-1842 e 1856-1860) che l’Impero britannico scatenò contro l’Impero cinese. Le motivazioni del conflitto erano commerciali. Londra voleva che il mercato cinese restasse aperto alla importazione di oppio proveniente dalle Indie britanniche e Pechino faceva del suo meglio per impedirlo con leggi che ne proibivano il consumo. Quando vinse la guerra il Regno Unito ottenne che nel bottino della vittoria vi fosse anche l’isola di Hong Kong: un titolo di proprietà che oggi sarebbe considerato piratesco.