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 2020  giugno 06 Sabato calendario

Veniamo tutti dall’Africa Equatoriale

La sospensione causata dal covid-19 se non altro ha fatto passare in secondo piano gli odi razziali, che attraversano la penisola. A dire il vero all’inizio si è provato a incolpare i migranti, ma non ha funzionato. Approfittiamo di questa pausa, per segnalare un interessante libro, appena tradotto, dal significativo titolo Colore vivo. Il significato biologico e sociale della pelle. L’autrice, Nina Jablonski, ripercorre le principali tappe dell’evoluzione umana, mettendo in luce come le lunghe (nel tempo e nello spazio) migrazioni abbiano modellato la nostra carnagione a causa di climi diversi. 
Nella prima parte l’autrice affronta la questione dal punto di vista biologico, spiegandoci che la tavolozza dei colori della pelle umana che vediamo oggi si è evoluta negli ultimi 60000 anni. Prima eravamo tutti scuri, perché la linea evolutiva della specie umana ha avuto origine dell’Africa equatoriale, circa 6 milioni di anni fa. Poiché la pelle è l’interfaccia del nostro corpo con l’ambiente fisico, chimico e biologico, l’evoluzione della pigmentazione scura era intrinsecamente connessa alla necessità di proteggersi dai raggi UV, assai più forti nelle zone equatoriali e tropicali.
Poi, circa 65 mila anni fa, un piccolo gruppo di persone di spostò dall’Africa nordorientale e probabilmente andò verso est lungo la costa dell’Asia meridionale. Era iniziata la colonizzazione del pianeta. Spostandosi poco a poco verso climi meno torridi, i nostri lontani progenitori incontrarono un problema nuovo: è vero che i raggi UV possono causare il melanoma, ma in una certa misura sono indispensabile per sintetizzare la vitamina D, che serve a fissare il calcio nelle nostre ossa. Per questo soffrirono di rachitismo, che dovettero compensare con cibi adatti, in ogni caso abbiamo perso la pigmentazione scura negli ultimi 30 000 anni.
Fin qui le spiegazioni scientifiche, ma come scrive l’autrice, se è vero che il colore della pelle è il risultato di un processo evolutivo e di una conseguente mutazione genetica: «Non siamo geneticamente programmati per avere dei pregiudizi. Nel tempo, però, abbiamo sviluppato credenze e pregiudizi legati al colore della pelle che si sono trasmessi nei decenni e nei secoli e attraverso continenti e oceani».
Ecco allora che la pelle diventa il punto di incontro tra biologia ed esperienza quotidiana. A partire dalle prime classificazioni di Linneo, per oltre due secoli scienziati e filosofi continuarono a discutere sul colore e sulla razza e se il primo fosse un indicatore della seconda. Kant (uno dei più influenti razzisti della storia) pensava di sì, Leibniz di no, ma resta il fatto che nella maggior parte dei casi la differenza razziale venne codificata in base al colore della pelle. Colore che non ha nulla a che fare con una presunta specificità naturale; eppure a partire dalle prime teorie razziali e fino a oggi è diventato un indicatore di qualche altra e più profonda differenza, così onnipresente che è quasi impossibile per alcune persone separarlo dal concetto. Il concetto di razza attribuito all’umanità, fin dagli inizi si è fondato sul colore della carnagione dei non europei, come elemento discriminatorio. Il colore della pelle è una realtà biologica; la razza no.
Discriminazioni su base cromatica sono state effettuate anche sui nativi americani, i «pellerossa» e su cinesi e giapponesi, divenuti gialli, a causa di processi graduali e a volte incoerenti, ma l’esempio più ovvio è la negativizzazione delle persone provenienti dall’Africa, che hanno sofferto terribilmente il razzismo sulla loro pelle, a causa della loro pelle. Un pregiudizio costruito fin dall’epoca delle prime esplorazioni, che ha poi finito per legittimare la tratta degli schiavi: mettere in catene un essere considerato inferiore, se non addirittura non-umano, leniva i sensi colpa. Negli Stati Uniti il colorismo, cioè la politica basata sulle differenze cromatiche, ha finito per determinare il destino di milioni di individui: bianco significava uomo libero, nero era uguale a schiavo.
Tutti gli stranieri sono altri da noi, si potrebbe dire parafrasando George Orwell, ma qualcuno sembrerebbe essere più altro degli altri e questo qualcuno è il nero. Non a caso quando, eufemisticamente, ma sarebbe meglio dire ipocritamente, usiamo l’espressione «uomo (o donna) di colore», di fatto pensiamo solo ed esclusivamente a qualcuno che ha la pelle nera. Contemporaneamente il pensarci bianchi ci esime dal fardello di essere di qualunque colore, di essere come privi di colore, trasparenti. Il colore (e quello della pelle in particolare) è un fatto naturale, dovuto alla rifrazione della luce, ma la sua interpretazione è assolutamente culturale. Sarebbe tutto più facile se continuiamo a pensare che i colori che vediamo, siano i colori del mondo, invece no: sono i colori della mente e come ogni dato culturale, sono il frutto di una costruzione del tutto umana.