Tuttolibri, 6 giugno 2020
Intervista a Nathan Englander
«In quanto uomo bianco, credo che dovrei commentare meno e ascoltare di più», dice riferendosi alle proteste seguite alla morte dell’afroamericano George Floyd che stanno mandando a fuoco gli Stati Uniti. Nathan Englander ha da poco compiuto 50 anni («dopo la mezzanotte mi sono sentito subito meglio») e ha trascorrso la quarantena a Toronto, dove si è trasferito da poco assieme ai due figli, una bambina di 5 anni e un piccolo di 10 mesi, e alla moglie antropologa che ha trovato lì il lavoro dei suoi sogni. «In questi giorni avrebbe dovuto debuttare un mio spettacolo teatrale a San Diego e poi sarei dovuto andare a Parigi per insegnare. Ma sono grato perché stiamo tutti bene. Fondamentalmente, resto tutto il giorno in casa: con un braccio tengo un bambino, con l’altro inforno il pane».
Cresciuto in una famiglia ortodossa di Long Island, newyorkese per cultura e per amore, Englander fa parte di una lunga tradizione di scrittori ebrei americani che va da Malamud a Roth, e nella sua scrittura mescola da alchimista la satira ai bisogni imprescindibili dell’essere umano: il risultato è che spesso i suoi libri racchiudono una morale più profonda.
Per via del successo delle raccolte Per alleviare insopportabili impulsi (1999) e Di cosa parliamo quando parliamo di Anne Frank (2012), è stato considerato a lungo soprattutto un autore di racconti, ma in parallelo ha continuato a nutrire la vena romanzesca: dopo Il ministero dei casi speciali (2007) e Una cena al centro della terra (2018), esce ora in Italia Kaddish.com, probabilmente il suo migliore. È la storia di un ebreo trentenne, Larry, che delega a un sito internet la recita giornaliera della preghiera per il lutto del proprio padre. Vent’anni dopo, Larry si è convertito ed è diventato il rabbino Shuli che, per espiare quel peccato di gioventù, si imbarca in un viaggio a Gerusalemme che è soprattutto spirituale.
Come si sente a essere lontano dalla sua New York in un momento così difficile?
«Strano. Quando ci fu l’11 settembre, ero appena rientrato da Gerusalemme, e anche se avrei preferito che non fosse mai successo, sono stato contento di essere presente. Con i confini chiusi, invece, non potrei comunque tornare a fare visita alla mia famiglia. Un’altra cosa strana è trovarmi in un Paese che ha una democrazia adulta: persino l’opposizione, qui, dimostra di avere a cuore in modo autentico la popolazione. È un contrasto doloroso se penso agli Stati Uniti: si può supportare o meno Trump, ma non si può certo fare finta che stia affrontando questa pandemia in modo responsabile».
Si vedrà alle elezioni di novembre.
«Nel 2016 io e mia moglie vivevamo in Malawi e da lì, come anche voi in Italia, abbiamo saputo i risultati qualche ora prima degli stessi americani. Già allora non potevo credere che fosse successo davvero, perciò questa volta non nutro molte speranze. Spero solo il meglio per il mio Paese».
Non crede quindi che la pandemia ci renderà migliori.
«Questa tragedia riguarda tutto il mondo, ma ciascuno di noi ne sta facendo un’esperienza personale: io sono qui a fare il pane, il genitore e lo scrittore nei ritagli di tempo, mentre uno dei miei migliori amici sta dirigendo uno dei maggiori ospedali di New York. Di base sono un ottimista, ma anche uno scommettitore che non ci prende mai. Perciò anche questa volta mi sbaglierò: penso che torneremo in un mondo migliore, o almeno più consapevole. Soprattutto su problemi come il global warming».
"Kaddish.com" parla di come riuscire a gestire la morte di una persona cara attraverso un dispositivo tecnologico - una cosa che, in modalità diverse, sta accadendo per il coronavirus. Ci racconta come è nato?
«Questo è un libro su un nuovo livello di utilizzo della tecnologia, su un uomo che vuole fare le cose per bene, sistemarle, e sul perdono. Quando ho iniziato a scriverlo, ero ossessionato dal fatto che viviamo le nostre vite dentro alle macchine: facciamo interviste, abbiamo fidanzati, pratichiamo sesso, lavoriamo. Mi chiesi: e il dolore? Come sarebbe se anche quello, i riti, i funerali, passassero da lì? Così mi venne in mente il titolo, Kaddish.com, e io e il mio agente cercammo di acquistarne il dominio internet, senza riuscirci. Sei mesi dopo l’uscita, un giornalista mi avvisò che qualcuno aveva realizzato proprio quel sito. A volte capita che un libro superi i propri confini, ma forse, in realtà, dovrei chiedere una percentuale a tutti coloro che in questo modo riescono a pregare per i propri defunti!».
Il protagonista Larry-Shuli è perseguitato da una "leggerezza" commessa vent’anni prima. Dai film di Woody Allen sappiamo quanto possa essere tremendo il senso di colpa in un ebreo. Anche per lei è così?
«Sì, al 100%. Mi imbarazza ammetterlo, ma so di essere il classico ebreo nevrotico e pieno di vergogne. Il senso di colpa e il desiderio di essere gentile mi divorano, sono nel mio Dna. Il che forse non è un male visto che ora in America va di moda essere senza vergogna e presentarsi per quello che non si è».
Nel libro, liquida in poche righe il momento della conversione di Larry, perché?
«Ci ha mai fatto caso che per le persone che hanno avuto un cambiamento radicale è come se il "prima" fosse cancellato? Abbracciano il nuovo e tutto il resto viene ridotto a un’unica riga nella loro bio. Ho pensato che se per loro quel momento non era così importante, non lo fosse nemmeno per il lettore. Piuttosto, mi interessava un altro aspetto relativo ai grandi cambiamenti: è come se a ciascuno di noi ne fosse concesso soltanto uno. Le faccio un esempio: io sono cresciuto in una comunità ortodossa, poi a un certo punto ho deciso di diventare ateo. Se mi chiedono se sono religioso, io rispondo di no, ma la verità è che io sono un pessimo ateo, perché ho troppa paura di Dio. Il punto è che dentro di noi abbiamo un’intera scala di grigi, tanti noi stessi multipli che coesistono. Perché, invece, non potremmo andare e venire, essere più cose e, un po’ come accade nell’idea di reincarnazione, "reincarnarci" in sé differenti nella stessa vita? Magari la prossima volta che io e lei parleremo mi sarò fatto crescere una lunga barba chassidica...».
Recentemente, la miniserie tv di Netflix "Unorthodox" ha raccontato una comunità ultra-religiosa chassidica di Brooklyn. A lei è piaciuta?
«Moltissimo. Anche se sono cresciuto in una comunità ortodossa e non chassidica, il mio e quello della protagonista Esty sono mondi paralleli. L’ho guardata con mia moglie e ho pianto tanto: la rappresentazione è accurata ed estremamente rispettosa. Ne abbiamo parlato molto in famiglia, soprattutto con mia madre, e insieme abbiamo sconsigliato a mia sorella, che è molto religiosa, di guardarla perché non ne avrebbe approvato molti passaggi. In generale, comunque, vi ho trovato un paio di strane coincidenze che mi riguardano: la prima è che il quartiere di Esty a Brooklyn si trova ad appena a tre isolati da casa mia, la seconda è che la zona in cui lei si trasferisce a Berlino è proprio quella in cui io stesso ho abitato anni fa per una residenza. Andavo nel suo stesso ristorante, e la piazza in cui trascorre buona parte del suo tempo è la stessa in cui ho comprato l’anello di fidanzamento a mia moglie. Unorthodox non solo mi ha toccato profondamente in quanto ebreo, ma è uno show che ho sentito vicino anche personalmente. Sono molto contento del suo successo».
Qual è stata la sua parte preferita?
«Quando la "sex coach" dà a Esty lezioni sul sesso, di cui lei prima del matrimonio non sa nulla, e poi quella in cui suo marito Yanky, appena atterrato in Germania per riportarla a casa, telefona alla madre e le dice. "Sì, mami, sono appena arrivato, c’è il sole qui". Io e mia madre abbiamo riso moltissimo perché è proprio così: siamo davvero dei mammoni!».
Quanto è importante secondo lei che serie tv, come "Unorthodox", e libri, come "Kaddish.com", restituiscano narrazioni fedeli di realtà che ai più sono sconosciute?
«Moltissimo, per questo non capisco perché ogni volta che ci si trova davanti a una rappresentazione radicale del giudaismo alcuni si arrabbino tanto o ne restino sconvolti. L’idea di aprire una finestra su un’altra cultura sviluppa sempre comprensione e tolleranza. E ancora più che la tv, i libri servono proprio a questo, ad ampliare i confini. Mi piace pensare che siano l’accesso a un mondo diverso».