La Stampa, 6 giugno 2020
Ricordi, in principio fu Medea
«Te xé contento?». Era una greca nata a New York che però come nessuna rese geniale l’italiano cantato. Ma in quello parlato Maria Callas non si liberò mai da un accento veneto, anzi veronese, come quello del commendator Meneghini, marito-pigmalione-padre di riserva vernacolo e modesto ma all’epoca ancora indispensabile. L’interlocutore della Callas è Carlo Emanuele Ricordi, per tutti «Nanni», discendente della famiglia che ha fatto storia, gloria e affari dell’opera italiana almeno quanto Verdi e Puccini. Siamo nel settembre 1957 e l’oggetto della soddisfazione della diva è l’incisione della Medea di Cherubini, il primo disco griffato Ricordi e l’unico in studio della Callas non registrato per la Emi.
In occasione del festival Archivissima (on line fino a lunedì), da quell’inesauribile scrigno di delizie che è l’Archivio Ricordi diretto da Pierluigi Ledda emergono dettagli e aneddoti su quell’incisione. A cominciare da quelli del Nanni, ex pugile, ex pianista, approdato alla Rca americana da dove convinse Casa Ricordi, che non era già più di proprietà della famiglia, a fare quello che si era sempre rifiutata di fare: i dischi. «A Milano non sapevano nemmeno se avessero il buco in mezzo o di lato», racconta Ricordi in una vecchia intervista radiofonica. Poi cambiarono idea e senza mezze misure: subito la Callas con le forze della Scala, in un titolo così impegnativo e così «suo», appunto Medea, cui la Emi non era interessata. Il giovane Ricordi, 25 anni, si trovò a gestire l’impresa con l’unico ausilio di una segretaria di 17 (l’Italia del boom non era ancora un Paese per vecchi, e forse lo fece proprio per questo), prima di inventare, dal punto di vista discografico, tutta la prima gloriosa generazione dei cantautori italiani.
Per fortuna, il Nanni della Callas era amico: «Ti voglio fare un regalo, ti farò risparmiare, gli schèi sono importanti», gli disse lei. Dopo laboriose trattative con Meneghini, il contratto le riconobbe una percentuale del 10% sulle vendite, un anticipo di nove milioni e 450 mila lire di rimborso spese. Per dire: Tullio Serafin, che dirigeva, di milioni ne prese tre. La Callas avrà pure fatto un prezzo di favore, ma gli «schèi» erano importanti anche per lei.
Però le dive, quelle vere, non sono tali soltanto per il cachet. Tutta la disciplina, il rigore, la serietà della Callas si manifestarono nella richiesta che il maestro Tonini, celebre ripassatore di spartiti della Scala, le fosse messo a disposizione per quindici giorni prima dell’inizio delle prove. Lei Medea l’aveva già cantata nel ’53, prima al Maggio con Gui (erano 44 anni che il capolavoro non veniva rappresentato in Italia) e poi alla Scala con Bernstein, arrivato quasi per caso a sostituire De Sabata ammalato. Dunque, conosceva bene l’opera. Eppure volle ristudiarsela da capo.
Il 14 settembre cominciò l’incisione che fu cosa fatta in appena cinque giorni, altri dicono in tre. Secondo i ricordi di Ricordi, «la Callas non dovette mai ripetere una frase». E dire che il disco era rimasto in bilico fino alla fine. Il 10 settembre, dalla Ricordi mandarono un Sos per lettera a Serafin, che dirigeva al San Carlo: la Callas «non è disposta a transigere» sui «tagli apportati alla Sua (così, con la maiuscola, ndr) parte. Ella intende presentare l’opera in America, e desidera che, per quel che la riguarda, la sua parte nel disco corrisponda esattamente a quella che eseguirà sulla scena; non ha nulla in contrario a che altre parti vengano tagliate».
I responsabili della Ricordi convinsero Serafin a intervenire; il vecchio e saggio Serafin convinse la Callas e il disco andò felicemente in porto. Oggi la rissa fa un po’ sorridere, perché la Medea in questione non ha molto a che vedere con l’originale di Cherubini, un’opéra-comique in francese con i recitativi parlati. Serafin invece dirige in italiano e con i recitativi musicati da Franz Lachner. Taglia parecchio, ma curiosamente la sua edizione è più completa di quella di Bernstein, documentata da un «live» benedetto, perché almeno sopravvive parte dell’Allegro moderato di «Del fiero duol», dove la Callas interpola anche un si bemolle acuto, come se Medea non ne dovesse già cantare abbastanza.
Per lei, peraltro, non erano giorni facili. Quell’estate scoppiò il famigerato affare di Edimburgo, quando la Callas aveva lasciato le ultime recite della Sonnambula della Scala in tournée, scatenando polemiche furibonde. Poi il 5 settembre aveva partecipato al celebre ballo in maschera veneziano di Elsa Maxwell, la pettegola di Hollywood, infausta festa che ebbe per lei due conseguenze catastrofiche. Prima, i giornali ricamarono sul fatto che aveva abbandonato il lavoro di Edimburgo per il divertimento di Venezia, costruendole una falsa fama di capricciosa: tutto era pronto per lo scandalo dell’Opera di Roma, che deflagrò quattro mesi dopo quando lei fu crocifissa a mezzo stampa per non aver portato a termine una Norma davanti al Presidente Gronchi, e capirai. Secondo e più devastante risultato: nel soggiorno veneziano, la Callas incontrò per la prima volta l’orrido Aristotile Onassis.
Resta, di quei giorni tormentati, questa Medea. Forse non è la migliore della Callas: personalmente tifo per il live di Dallas del novembre ’58, soprattutto perché a duettare con lei c’è un Giasone piramidale come Jon Vickers. Ma è comunque una Medea della Callas, uno dei personaggi più giganteschi della storia, insieme maga assassina e donna ferita, erinni fragile e vittima criminale, un groviglio di pianto e invettive, rimpianti e furori, lacerazioni e commozioni. Questo, per noi posteri ammirati. Per Casa Ricordi, «schèi» spesi davvero benissimo.