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 2020  giugno 06 Sabato calendario

L’Italia che non ha imparato a investire

Forse, parafrasando la famosa frase del presidente americano John Fitzgerald Kennedy “non chiedere cosa può fare il tuo Paese per te, chiedi cosa puoi fare tu per il tuo Paese”, qualcuno potrebbe iniziare a chiedersi non quello che l’Europa può fare per l’Italia, ma quello che può fare l’Italia per l’Europa. Domanda legittima di fronte al rapido cambiamento delle prospettive europee. 
L’azione della Bce, l’accordo franco-tedesco che ha sbloccato la successiva proposta complessiva della Commissione sul Recovery Fund, e infine la potenza di fuoco dell’azione della Germania sul piano nazionale, rappresentano nel loro insieme un mutamento di prospettiva che non risponde solo alla necessità di contenere, prima, e riparare, dopo, i danni della pandemia nei vari Paesi, ma deriva anche dal prendere atto, soprattutto da parte della Germania, che è cambiato il contesto internazionale in cui tutti i Paesi europei dovranno operare.
Il possibile rimbalzo economico, dopo il crollo del Pil e dell’occupazione che si sta progressivamente manifestando in Europa in tutta la sua gravità, pur con qualche differenza tra i vari Paesi, dipenderà molto, infatti, anche da quello che accadrà nel resto del mondo. Le catene produttive internazionali che caratterizzano l’iper-globalizzazione che abbiamo vissuto negli ultimi decenni determinano un effetto di “contagio” delle conseguenze economiche della pandemia che trasmette shock di offerta e shock di domanda da un Paese all’altro attraverso il commercio internazionale. L’accelerazione determinata dal Covid-19 disegna un futuro caratterizzato da una spinta alla revisione delle relazioni di produzione, commercio e finanziarie globali, una revisione alimentata anche dai confronti geopolitici tra Stati Uniti e Cina. 
Tutto è ancora aperto circa la profondità dei cambiamenti che vengono etichettati come “de-globalizzazione”, ma è difficile che cambi la loro direzione. Ciò significa che se già prima della pandemia, la Germania manifatturiera mostrava segni di crisi, e con lei la manifattura italiana, ora certamente la Germania non può pensare che il modello export-ledsostenuto dal surplus commerciale extra-europeo sia il futuro della propria crescita. E allora tutto cambia, anche per il resto dell’Europa. Il ridisegno delle catene produttive non può non richiedere il coinvolgimento, nel nuovo contesto, di tutta l’Europa. Il mercato europeo con la sua capacità di acquisto diventa anch’esso ancora più importante. La Germania ha bisogno dell’Europa, e in particolare dei grandi Paesi produttori e consumatori, come Francia, Italia, Spagna e Polonia quanto questi della Germania. Ma se l’Europa oggi serve alla Germania molto di più di prima, anche il resto dell’Europa oggi può beneficiare della Germania molto più di prima. 
Abbiamo chiesto per anni alla Germania di utilizzare il suo “spazio fiscale” per trainare l’economia europea, sostenendo la domanda interna, aumentando gli investimenti pubblici e privati asfittici e abbandonando la sua politica mercantilistica e di bilancio sempre in pareggio o in surplus. Oggi lo ha fatto e non sembra che si tratti solo di un poderoso intervento congiunturale di risposta alla pandemia, ma che al contrario vi sia dietro una visione strategica di più lungo periodo.
L’intervento di sostegno alle sue imprese e alla sua popolazione è stato immediato e senza precedenti e l’annuncio recente di un accordo tra i due partiti della grande coalizione su un ulteriore programma di stimolo per altri 130 miliardi conferma l’impegno espansivo e ne allunga la prospettiva. L’impatto positivo di traino su tutta l’Europa è ovvio e dovrebbe essere salutato con soddisfazione. Il rafforzamento dell’industria tedesca giova anche per parte importante alla manifattura italiana con essa fortemente integrata e il sostegno alla domanda interna tedesca sostiene anche l’economia italiana e degli atri Paesi europei. Ma è interesse reciproco che anche l’Italia, nei limiti delle sue possibilità, contribuisca al sostegno dell’economia europea e della sua competitività in modo cooperativo con gli altri giocatori in campo. 
La Bce sta svolgendo bene il suo compito e con l’annuncio dell’ulteriore “bazooka” da 600 miliardi si prepara a garantire ancora a lungo l’accesso al mercato a condizioni accettabili anche ai Paesi indebitati come l’Italia. La Commissione europea ha preparato strumenti di finanziamento a breve dei governi europei più colpiti dalla pandemia e propone ulteriori strumenti diretti a finanziare successivamente l’attuazione di piani europei, nella loro possibile articolazione nazionale ma con il fine generale di rafforzare la capacità produttiva europea e la sua competitività economica e istituzionale. La Germania, come già detto, sta svolgendo i suoi compiti a casa nel nuovo contesto, quelli che anche l’Italia le ha sempre chiesto negli anni passati. 
Ma anche all’Italia si chiedono i compiti a casa, che non sono più solo quelli di controllare il proprio bilancio. O meglio le viene chiesto anche questo implicitamente, ma con il metodo che l’Italia ha sempre rivendicato: spendere di più per sorreggere l’economia, per investire e per aumentare il tasso di crescita anche aumentando il debito. Inoltre il complesso delle azioni degli altri attori richiamati hanno oggettivamente creato le condizioni di credito per cui oggi all’Italia conviene aumentare le nuove emissioni di debito anche al fine di ridurre il costo medio dello stock. 
Ma sembra che per l’Italia i compiti a casa siano sempre difficili, qualunque essi siano. Le risorse in parte le ha, in parte le può avere, ma non riesce a spenderle subito nel modo utile e necessario: non ha la pratica, questa sembra la sconcertante verità. Più facile continuare a discutere di Europa con l’approccio di chi si considera in fila davanti a una mensa solidale, lamentandosi per principio sulla qualità del cibo. Se poi qualcuno chiede cosa a questo punto si vuol fare, si organizza un convegno, seppur in alta sede istituzionale.