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 2020  giugno 05 Venerdì calendario

Intervista al presidente della Disney Bob Iger

Bob Iger si alza alle 4 e 15 tutte le mattine da così tanto tempo che ha perso il conto. Fa un’oretta di ginnastica spinta. Legge New York Times e Wall Street Journal. Per un po’ lascia la mente libera di vagare per i fatti suoi. Poi comincia la giornata di lavoro vera e propria. A questo ritmo, in quattordici anni sotto la sua guida, Disney ha quintuplicato il valore delle azioni. Mentre il patrimonio personale del presidente, stimato nei dintorni dei 700 milioni di dollari, è circa la metà di quanto ha fatto al botteghino Frozen II, uno dei loro sette film tra i dieci andati meglio del 2019. A sessantanove anni, avendo da poco abbandonato il ruolo di amministratore delegato, aveva pensato che quest’estate sarebbe finalmente stata quella di vacanze luculliane: tutto luglio e agosto! Poi è arrivato il coronavirus. Con il 91 per cento in meno rispetto all’anno scorso (parchi a tema e cinema sprangati) la prima trimestrale dell’azienda sembrava più Profondo rosso che Fantasia. Così il cavaliere Jedi che già pregustava grandi regate e degustazioni di Brunello di Montalcino ha dovuto risguainare la spada laser. E, dopo alcune false partenze legate a emergenze impreviste, ha trovato il tempo di parlarci (con una busta paga di 60 milioni di dollari annua un’ora del suo tempo, se ne lavorasse 70 alla settimana, ne varrebbe quasi 17 mila: quel che si dice un’intervista preziosa) in occasione dell’uscita italiana del suo Lezioni di creatività (Sperling & Kupfer). Ovvero il pedaggio letterario lungo le autostrade dell’ego al quale pochi grandi manager hanno la grandezza di sottrarsi. 
Lei inizia il libro raccontando delle dieci visite in sei mesi in Cina per tagliare finalmente il nastro di Disneyland Shanghai, undici volte più grande del parco californiano. Poi arriva la gelata pandemica e infine, dall’11 maggio, la riapertura. Come cambierà il vostro modo di fare affari?
«Epidemiologicamente la Cina è circa due mesi avanti a noi e possiede sistemi di tracciamento che noi ancora non abbiamo. Siamo tornati al lavoro, ma non alla normalità e chissà quando la riconquisteremo. Pochi business sono altrettanto incompatibili con una malattia che si diffonde col contatto come un parco a tema dove la densità di popolazione è la regola. Dunque mascherine. Pagamenti elettronici. Ingressi contingentati. Per adesso tutti rispettano le regole. Guarderemo i dati e capiremo se sarà possibile aumentare».
Il libro promette «lezioni di creatività». Lei ne ricorda una decisiva ricevuta da Roone Arledge, suo capo allo sport di Abc: trovare sempre le storie. Come l’ha applicata?
«Ogni atleta era anche un uomo e quindi depositario di innumerevoli storie (dov’è nato, dove è cresciuto, etc). Lui era  bravissimo a scovarle e raccontarle: “Qual è la storia qui?”chiedeva di qualsiasi argomento ci occupassimo. Molti anni dopo una cosa simile (“Che storia stiamo raccontando al cliente?”) me l’ha ripetuta Steve Jobs mostrandomi un Apple Store: una storia di eleganza, staff amichevole, ambiente energetico. E niente avrebbe dovuto interrompere quel flusso di emozioni. Io non mi considero uno storyteller del loro calibro, però so apprezzarle».
Nel caso di Disney che storia sapete raccontare così bene tanto da aver incassato oltre un miliardo per ognuno dei vostri ultimi cinque blockbuster?
«Viviamo in un mondo diverso da quello in cui sono cresciuto io. Con una scelta senza precedenti di merci, dai cereali alle auto. Un’abbondanza che può frastornare il cliente, compreso quello che guarda i film in streaming. Essere un brand riconoscibile può aiutarlo a non perdere tempo. Gli ingredienti della storia che raccontiamo sono: bene e male ben distinti, un futuro tendenzialmente luminoso, rispetto per gli anziani, amicizia ed eroi da celebrare, spirito d’avventura e inclusione nei confronti di qualsiasi minoranza. Nell’entertainment pochissimi, oltre a noi, hanno un marchio che da solo determina la scelta. C’erano Pixar, Marvel, Star Wars e li abbiamo comprati. Per valorizzarli ancora di più. Mostrando il brand più grande e con colori più vividi che mai. Ecco, in questi anni sono stato, prima di tutto, un buon gestore di marchi».
Quanto di questo successo ha a che fare con la sua disciplina militaresca?
«Il mio è un lavoro che richiede grande energia e concentrazione. Si può lavorare su molte cose ma serve concentrarsi  su una alla volta. Quindi bisogna prendersi cura di corpo e mente. Vado a letto verso le dieci e mezza e mi sveglio alle quattro e un quarto. Per prima cosa faccio esercizi, da solo, in una stanza in penombra, mentre ascolto la musica, con la tv accesa ma  senza audio. È come una forma di meditazione durante la quale, ancora vergine dalle influenze esterne a cominciare dalle email che mi distraggono e possono anche cambiarmi l’umore, ho modo di pensare alle cose con chiarezza. Poi esco e arrivo in ufficio per  primo, verso le 6.30-7. Mi faccio un caffè. Le riunioni e gli impegni esterni iniziano più tardi, quando ho già avuto modo di guardare i siti e un po’ di tv ma resto assetato di notizie, un vero news junkie, per tutta la giornata».
Nel 2006, per 7,4 miliardi in azioni, compra Pixar. E diventa amico di Jobs. Se lei è noto, nelle parole di David Geffen, come «uno di cui mai nessuno ha parlato male», lui sapeva essere feroce con i collaboratori. Ricordi?
«Prima dell’annuncio dell’acquisizione mi prese da parte per dirmi che il cancro era tornato e che, se volevo, potevamo annullare tutto. È stato un momento molto intimo che ha cementato la nostra amicizia e che ho ricordato al suo funerale, davanti alle venticinque persone che vi hanno partecipato. È raro fare nuove amicizie da adulti. Parlavamo del matrimonio, delle relazioni e ci scambiavamo playlist musicali. Una volta mi portò all’Apple Design Lab, che lui visitava 3-4 volte al giorno, e mi fece sentire il rumore che faceva l’alimentatore magnetico del portatile Mac quando si staccava. Un suono netto, bello, che ripeté decine di volte, attaccando  e staccando, perché lo potessi apprezzare. E quando notai che aveva modificato di poco la forma di una rientranza nello chassis del medesimo computer si emozionò. Condividevamo l’amore profondo per il prodotto».
Tre anni dopo, per 4 miliardi, acquisite Marvel. La vecchia guardia vi sconsigliò, per il supereroe nero, di produrre Black Panther. Il che ricorda Hollywood,  la miniserie di Ryan Murphy, in cui gli studios non davano agli afroamericani ruoli da protagonisti. Ma era il Dopoguerra...
«Dico solo che era invece la cosa giusta da fare. L’abbiamo fatta. Ed è stato un enorme successo».
2012 e arriva l’acquisizione, per altri 4 miliardi, della Lucasfilm di Star Wars. Ma dopo un po’ il  fondatore mastica amaro e vi dà degli “schiavisti”. Avete recuperato il rapporto?
«Sì. Si scusò poco dopo. E l’anno scorso è venuto all’inaugurazione di un parco a tema Star Wars in California rimanendo ospite da me. George può essere caustico e non è uno che le manda a dire. In quel caso la scelta delle parole fu particolarmente infelice. Quel che credo volesse dire era che l’azienda era una sua creatura e che venderla era stato come vendere una parte di se stesso. Ma l’aveva deciso lui».
Infine nel 2019, per la spaventosa cifra di 52 miliardi, rilevate la 21st Century Fox. Con Rupert Murdoch,  visti da fuori, siete agli antipodi. Negli affari non conta niente?
«Bisogna mettere da parte la visione del mondo, in questo caso politica, e concentrarsi sulla missione. Mi offrì del  vino non male che produceva nella sua tenuta, anche se preferisco il Montalcino. Io lo rispetto perché ha creato un impero dal niente. Lui mi rispettava perché avevo fatto crescere Disney e perché ero riuscito là dove lui aveva fallito: ottenere Star Wars. Non ci sono stati problemi».
Ci doveva essere un quinto megadeal, con Twitter: perché è abortito?
«Avevamo bisogno di una piattaforma digitale su cui veicolare i nostri contenuti e ci era sembrata una buona idea. All’epoca era anche associata a idee di democrazia, grazie al ruolo nelle Primavere arabe. Col tempo però, ben prima delle accuse di influenze russe nelle nostre elezioni, mi sono reso conto che Twitter era anche piena di robaccia, di contenuti di odio incompatibili con i nostri valori. E mi sono convinto che avrebbe potuto diventare un’enorme fonte di distrazione e avrebbe potuto danneggiare il nostro brand. Così, dopo aver lasciato un venerdì tutti certi che avremmo ratificato, il lunedì ho detto che non se ne sarebbe  fatto niente. E non mi sono mai pentito».
Oggi una piattaforma ce l’avete, si chiama Disney+ ed è la minaccia più credibile allo strapotere di  Netflix. Dove però mi hanno detto serafici di essere imbattibili, sia come piattaforma che come contenuti. Che risponde?
«Che non puntiamo a batterli. Che nella cosiddetta streaming war non c’è spazio per tutti ma di certo ce n’è per entrambi. Loro sono estensivi, fanno più volume e meno brand. Noi intensivi, meno volume e più brand. Sono potenti, hanno un vantaggio temporale, li rispetto. Ma è vero anche che nessuno ha mai totalizzato 50 milioni di abbonati nel breve lasso di tempo in cui ci siamo  riusciti noi».
Resta la spettacolare picchiata dei profitti nel primo trimestre: come vi riprenderete?
«Siamo stati colpiti in maniera durissima. Ma recupereremo man mano che i cinema e i parchi a tema riapriranno. Tuttavia  non immagino a breve un vero ritorno alla normalità. È una traumatica occasione di cambiamento in cui dovremo imparare a fare tutto in modo più efficiente».
E lei andrà davvero in pensione nel 2021?
«Già adesso non sono più Ceo. E sono rimasto, come da accordi, per dare una mano nella transizione. Con la pandemia sento  un senso di responsabilità anche maggiore. Pensavo, dopo non aver fatto vere vacanze estive da quando avevo 14 anni, e aver sempre lavorato, di rifarmi ora. Ma dovrò rimandare».
È vero che correrà da candidato democratico alla presidenza degli Stati Uniti nel 2024?
«Non mi pronuncio su questo. In questo periodo mi diverto molto a fare da mentore per varie startup che non c’entrano con lo spettacolo. Credo di aver accumulato competenze su come gestire aziende e, stavo per dire nazioni, ma questo mi metterebbe nei guai (ride). Onestamente non lo so. Ma quando lascerò Disney, un venerdì, sono piuttosto convinto che saprò cosa fare il lunedì successivo».
Non vuole sbilanciarsi sul suo futuro politico ma, da cittadino, le sembra che Trump stia gestendo bene l’emergenza?
«Senta, ho delle opinioni nette in proposito, e le espongo ai miei amici. Ma non voglio parlarne in pubblico perché non credo che gioverebbe né a Disney né a me. Piuttosto, lei che è toscano, ha dei posti speciali da consigliarmi per quando riapriranno il mondo e potrò di nuovo tirare il fiato?».