Avvenire, 5 giugno 2020
Il diritto alla pigrizia
Sosteneva Oscar Wilde che «non far nulla è il lavoro più duro di tutti». Ne abbiamo avuto la prova nei giorni terribili del lockdown, blindati in casa in isolamento, costretti a sospendere il lavoro a inventarsi diversivi per riempire giornate svuotate di impegni a detestare il riposo, l’ozio quotidiano e quel battere la fiacca in altri tempi ambito e agognato. Tutti a contare i giorni verso un ritorno alle fatiche ordinarie di prima del Covid– 19. Per tutti è stato logorante ma per molti l’esperienza di un tempo sospeso nell’inattività è stata un’impresa più che penosa, una mortificante sofferenza. Perché non fare, stare con le mani in mano, sprecare il tempo è esasperante e a lungo andare faticoso, l’opposto di come è organizzata la nostra vita dove l’impegno quotidiano, l’attività, la produttività sono un valore indiscutibile e una virtù; l’ozio, l’indolenza, la poltroneria un vizio deplorevole e persino un peccato.E se, in questa società dell’iperattività e delle performance estreme, invece che un difetto la vera pigrizia fosse un diritto, persino un’arte che si conquista con fatica? Se si trattasse, piuttosto che un tratto caratteriale del singolo, di un sentimento collettivo che si manifesta là dove il contesto sociale ed economico punta tutto sull’operosità, la volontà e l’efficienza? Se la guardassimo come «un oggetto da conquistare dopo infinite lotte contro antagonisti di ogni tipo e natura che fanno del lavoro un valore fine a se stesso?». È la tesi argomentata dal semiologo Gianfranco Marrone attraverso una dettagliata ricostruzione del profilo della pigrizia, delle sue costanti e delle variazioni culturali, a suon di documenti di letteratura e filosofia, di storie, miti, proverbi, tradizioni e fumetti in un assai gustoso saggio, La fatica di essere pigri. E cioè l’idea che per essere cicale e non formiche «bisogna lavorare moltissimo, scontrarsi con un mondo che cambia e che pretende sempre di più un attivismo ipocritamente euforico».
Passione ambivalente, speculare alla concezione ambivalente del lavoro da maledizione e schiavitù a dovere sociale e realizzazione di sé, la pigrizia ha preso nel tempo la forma e le sfumature dell’opportunità ristoratrice e insieme del suo contrario, il vizio sommo da cui ne discendono tanti altri. Storia antica quella che Marrone ripercorre a partire dal racconto biblico della maledizione divina del lavoro passando per Seneca, Bertand Russell, La Rochefoucauld, Robert L. Stevenson, Ivan Goncarov, Paul Lafargue, Roland Bartes, Paperino, Snoopy e tanti altri, alla ricerca di una sorta di teoria della pigrizia. Che, per cominciare, non è esattamente la stessa cosa dell’ozio, una forma di inattività questa, il puro dolce far niente spesso circoscritto nel tempo, non necessariamente con una connotazione negativa, anzi ristoratore per il corpo e per la mente. La pigrizia (l’etimologia greca da a–ergos aiuta) è negazione del la- voro a cui si è obbligati. Una forma di resistenza al dovere sociale. Il pigro, spiega Marrone, è tale perché reagisce a un sistema di valori e comportamenti che ripudia l’inattività considerandola un vizio. Uno che resiste ostinatamente rifiutandosi di agire, con sfacciata poltroneria, a chi vorrebbe farlo lavorare. Ma attenzione: il pigro sarà anche lento, svogliato e indolente ma non inoperoso.
«Non è uno che non fa nulla, ma qualcuno che fa tutto il necessario per non far nulla; e, più precisamente, non fa quel che gli altri si aspettano da lui, i suoi impegni, il lavoro necessario per vivere, i doveri che la società gli impone, rinnegando il suo essere sociale». Per questo sulla pigrizia si accanisce lo stigma collettivo. È l’accidia vizio capitale e l’ignavia dantesca, il vizio di coloro «che mai non fur vivi», così disprezzati da non meritare neppure di scontare la propria pena dentro le porte dell’Inferno. Perciò alla fine non ebbe granché fortuna Il diritto alla pigrizia, rivendicato per i lavoratori nel suo celebre pamphlet da Paul Lafargue, nonché genero di Marx a cui qualche mal di pancia deve aver provocato con quel manifesto della pigrizia, considerata mille e mille volte più nobile e più rispettosa dei diritti dell’uomo che non il lavoro. Questo sì considerato la vera follia delle nazioni in cui domina il capitalismo, dunque da ridurre per obbligo a sole tre ore al giorno e «fannullare e fare bisboccia per il resto della giornata e della notte».Pigrizia è la vita sdraiata e apatica in una gelida Pietroburgo di metà Ottocento, vissuta accanto al camino, tra sporcizia e disordine di Oblòmov, il sonnolento resistente alla banalità del fare, protagonista dell’omonimo romanzo del russo Ivan Goncarov. Il pigro letterario per antonomasia che non si alza mai dal divano, sordo a ogni richiamo alla vita attiva, scettico sulle prospettive insulse del futuro, nostalgico sognatore della propria vita infantile ma consapevole della propria diversità, della dolorosa distanza tra sé e gli altri che si concretizza in definitiva nell’impossibilità di fare. Anzi di voler fare.
La stessa proverbiale e ostinata volontà di non fare nulla di Paperino, anche lui finito sotto la lente di Gianfranco Marrone. Chi non conosce lo squattrinato papero più infingardo ma anche più iperattivo dell’universo disneyano, costretto a un’operosità estenuante dalla solerzia di Zio Paperone? Pigro per eccellenza, «Paperino il riposo deve conquistarselo col sudore della fronte – spiega il semiologo – per lui la pigrizia è un’utopia, non una condizione reale di esistenza». Sulla sua quotidianità irrompono le vessazioni del vecchio zio taccagno che fa di tutto per costringerlo a lavorare mentre lui fa di tutto per evitarlo. Sognando di poter fare un giorno il collaudatore di materassi, accontentandosi intanto di conquistare un’amaca, su cui abbandonarsi alla più dolce pigrizia. Il dolce far niente che faceva gola anche a noi contemporanei, stanchi e oberati dai lavori stressanti. Un ideale di vita pure lui stroncato dal coronavirus.