la Repubblica, 4 giugno 2020
La conquista del Tevere dei grandi pesci alieni
L’ecosistema Tevere ha la sua unicità, d’altronde bagna e separa un millenario Caput mundi, culla di commerci e ansa di protezione, ristoro idrico e guado d’incontro di tribù che del convivio ancestrale fecero un potente Impero. Fiume del settimo livello ( ha sette affluenti), grande e maestoso bacino idrografico unitario, accumula sedimenti dal sempre geologico in quel grande delta ghiaioso in protostorica espansione il cui limo ha seppellito tesori di fossili mammiferi: mammut, ippopotami, cervi dalle grandi corna, quel” bue primigenio” che Cesare descriveva ancora, con gran gusto carnivoro delle sue truppe militari, come Uro – resto mnemonico fossilizzato delle nostre versioni di liceali.
È zona umida e perciò ricettacolo di tante specie di uccelli migratori, cui anse pozze innesti d’acqua offrono microclimi accoglienti e protettivi, biotopi unici e preziosi, spesso purtroppo trascurati da amministratori locali naturalisticamente analfabeti.
Il mistero, per la mia generazione di stupiti ornitologi cittadini, fu l’arrivo, repentino e massiccio, dei Cormorani. In pochi anni aumentarono, esplosero: e si nutrono di pesce vivo, dunque le acque tiberine dovevano essere ricchissime e pescose. I gabbiani lo riempiono da sempre, i gabbianelli, se svolazzano nervosi sui ponti, è segno che da qualche giorno c’è mare grosso e dunque la costa non offre abbastanza di galleggiante di cui nutrirsi. Aironi, folaghe e anatidi lo popolano da sempre. Coloratissimi, i Martin pescatore offrono sprazzi di luce brillante, ma ci vuole un occhio astuto e accorto per accorgersene. Quando nutrono i piccoli al nido, il loro faticoso andirivieni magari li svela anche all’occhio annoiato del travet in pausa pranzo.
Ormai le acque dolci italiane di autoctono ospitano poco. La battaglia contro la malaria, con la massiccia importazione e liberazione di piccoli pesci (soprattutto la Gambusia), divoratori delle larve e pupe delle mortifere zanzare Anofele) ha in realtà introdotto tante altre specie che nella calca ittica vennero pescate, spedite, reimmesse. A questo lungo e pervicace strupro della nostra biodiversità ittica nostrana ha poi potentemente partecipata l’ansia predatoria dei nostri pescatori ” dilettanti”, termine che gioiosamente induce qualche appassionato di amo e lenza a piacevoli amabili momenti di gloria vanitosa. Ma che ha immesso anche nel nostro biondo Tevere una massa di specie aliene di grandi dimensioni. Pesci che certamente inorgogliscono il pescatore vittorioso nelle foto che poi circolano repentine nei social media e nelle chat dove si gareggia per la preda più grossa o più rara o più difficile da trascinare a riva (spesso, per liberarla subito, ma a selfie scattato). Il luccio perca, il persico- sole, le enormi carpe dalle squame a specchio, o quel Siluro di oltre 50 kg e forse due metri di lunghezza che si narra sia stato tratto a riva ( e poi riliberato) in questi giorni a Fiumicino. Mostri che hanno da tempo “ingollato” le nostre ormai rare Tinche, lasciando qualche nostrano Cavedano.
Un fiume possente è un’autostrada di biodiversità animale, che lungo le sue sponde si aggira e si addentra, attratta da un centro pieno di succose immondizie eruttate di continuo da un’umanità sprecona. Volpi e di recente istrici ne usano le sponde anche per scavarci tane neanche troppo fangose, famigliole di nutrie sempre più audaci mendicano pane, finocchio e sedano da bambini eccitati che si sporgono per lanciarli tra le erbe emerse delle sponde. Inevitabili ratti se ne giovano, senza eccessivo scandalo.
Attendibili osservatori riferirono di ratti che utilizzavano destramente bottiglie vuote come galleggianti per attraversare il Tevere, in pieno centro. Mi cruccio di non avere trovato il tempo per fotografarli.
L’uso sempre più diffuso di fototrappole amatoriali scopre mammiferi notturni come donnole, faine, qualche tasso, per non parlare dei sempre più numerosi porcospini che rubacchiano crocchette in giardino al gatto di casa. Sfruttano il complesso di valli, vallette, camminamenti e canali che come ragadi rugose si irradiano dalle sponde, e accerchiamo e penetrano la città dove fiume e affluenti la inumidiscono.
Il Museo del fiume e la storica area naturale di 700 ettari a Nazzano ( 38 Km, NNE) è il tempio della suo storia naturale, la sua grande ansa attira uccelli rari divenendo fulcro di attiva conservazione e militante divulgazione. Lì il Tevere sa farsi celebrare, con la sua geologia, piante animali e complesse orografie museali. Visitarlo è un dolce dovere per un romano che rispetti le sue acque dolci.
Un mio ricordo tiberino. Il Tevere quell’anno quasi si seccò del tutto. Mi precipitai verso Ponte Milvio, in meravigliante secca totale, insaziabile curioso di eventi naturalistici potenziali rivelatori di stranezze animali. Un gigantesco Pesce rosso troneggiava in una piccola pozza, quasi incapace di far retromarcia. Il fondo era letteralmente bianco e scintillante, grandi e lisce forme globiformi lo pavimentavano, quasi enormi sassi di ghiaia ceramicosa: al sole brillavano lucidi i resti di centinaia di sanitari, tazze, lavandini bidet. Qualche anguilla sonnecchiava lenta nelle piccole pozzanghere, al calduccio.
Mi venne altrettanto spontaneo. Mi autoinvitai a casa del Maestro di zoologia romana ( e non solo), già attivissimo presidente dei Lincei, l’anziano mentore Giuseppe Montalenti.” Guardi bene, Alleva”, insisteva.” Secondo me ci dev’essere ancora qualche lampreda”. E, con l’occasione, mi ripetè che nel suo epistolario, ordinato e ben custodito, c’erano descrizioni e segnalazioni zoogeografiche di specie vertebrate locali e nazionali mai altrove (nei testi pubblicati) riportate, scrigno darwiniano e storico di antica biodiversità cittadina, tutta da ripristinare. Passati decenni, c’è ancora tanto da fare, per un acquitrinoso restauro e zoofilo ripristino del nostro grande fiume.