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 2020  giugno 03 Mercoledì calendario

Intervista a Jovanotti

Martedì 19 maggio 2020, ore 16.58, mail di Lorenzo Cherubini. 
«Dammi fino a domenica per vedere se mi viene un’idea, ok? Non mi prendo un impegno adesso perché non ho in mano niente, ma ci penso da subito. Mi piace il “nuovo” Vanity, complimenti».


Sabato 23 maggio, quattro giorni dopo. L’idea è preceduta da un suono nel pomeriggio distratto. Scartiamo il regalo. È una sua opera in esclusiva per Vanity Fair. Ci piace subito. Ci piace molto: «Non mi capita quasi mai di rivedere le vecchie foto, ma nei giorni scorsi ho avuto l’inatteso desiderio di farlo. Osservavo una dopo l’altra quelle del Jova Beach e mi prendeva alla gola un sentimento indescrivibile e struggente, una sensazione in bilico tra ieri e domani. “Per ricostruire le proprie emozioni e riprogettare il futuro”, pensavo, “non si può che ripartire da lì”. È come se in questo periodo fossimo entrati da una porta e adesso per uscire di nuovo dobbiamo trovarne un’altra. Nessuno sa quale sia questa nuova porta e verso cosa ci ritroveremo a guardare, ma so che dovrà essere necessariamente un orizzonte di libertà. Nel suo ridisegnarsi continuo e nel suo stimolo costante, libertà è una parola che mi è sempre piaciuta. A volte è nel titolo di una canzone, altre nascosta nelle pieghe di un pezzo, ma non esiste un mio disco in cui non ci sia e anche se non ho controllato con certezza, forse sono il cantante che in questi anni l’ha usata di più. Girare intorno al più sfuggente e al più importante dei termini, per me ha rappresentato sempre un’ossessione. Soprattutto per questa ragione, in un periodo anomalo, ho voluto contribuire al numero di VF».
Che forma dà a questa anomalia?
«Sono entrato in un fase in cui vivo le mie giornate in maniera folle. Faccio mille cose, ma senza nessuna finalità. Mi lascio andare alla felice scoperta del caso, mi perdo nella serendipity, scopro angoli nascosti mentre inseguo tutt’altro. Così, anche se non so quanto durerà, ho bisogno di svegliarmi, fare un giro in bici, mettermi a scrivere o suonare senza alcun obbligo né data da rispettare. Ogni tanto non avere una scadenza e non darsi dei compiti è necessario».
Sembra un principio che ha a che fare con la libertà.
«Ha a che fare con la bellezza e con il destino che il mio lavoro sa restituire. Non so quante attività al mondo esistano in grado di alternare periodi di autodisciplina ferrea ad altri di indisciplina totale in cui devo aprire mille libri insieme, ascoltare la musica più diversa e persino andare contro me stesso senza alcun ordine logico. Posticipare ogni ipotesi concreta a data da destinarsi mi ha permesso di rivedere tutti i miei piani. In questo periodo avrei dovuto già essere in studio a disegnare un’idea di disco nuovo con l’aspirazione di mettere in piedi un’attività live per l’estate 2021 e invece sto facendo tutt’altro. Con quello che è successo ai live probabilmente slitterò anche io: non possiamo ripartire tutti insieme. Ripartiranno quelli che si sono fermati, io ero già fermo».
Che cos’è per lei la parola libertà?
«La libertà non si può definire: si muove, è una parola in viaggio, una luce che appare e scompare.  In un bel libro di Dave Eggers (Il suo piede destro, Mondadori, ndr) che mi è ricapitato tra le mani, la libertà è il corpo di una statua in movimento che sta per fare un passo. E chi fa passi, per definizione, avanza sempre in direzione dell’ignoto».
Quanto c’è di ignoto nel suo lavoro?
«Tanto ieri, perché la creazione è sempre ignota. E tantissimo oggi perché l’incertezza, in un mondo, il mio, che vive di incontri e di assembramenti, è ancora più palpabile. Il nostro lavoro al momento è illegale. È proibito. E per quelli come me che scrivono canzoni per poterle condividere in un concerto e pensano che la musica dal vivo sia il cuore del nostro mestiere, non poter partecipare alla festa è paradossale».
Anche la libertà è un territorio paradossale?
«È il territorio più paradossale di tutti. La libertà puoi soltanto desiderarla. Puoi inseguirla. Rincorrendola hai l’illusione di viverla, ma alla fine non la possiedi mai e a scegliere è sempre lei. Un po’ come l’Angelica dell’Orlando furioso. Tutti la bramano e nessuno riesce ad afferrarla. Passa in due ottave dalla Francia alla Cina e dietro di sé lascia rabbia, rimpianti e follia. È promessa a Orlando: il più fico, il più intelligente e il più favoloso. E alla fine con chi si mette? Con Medoro, il primo che passa. Alla mia professoressa, Ariosto non piaceva. Gli preferiva Dante. Non era il suo tipo. Ma era decisamente il mio. È un sogno che ho scoperto dopo, Ariosto. Da autodidatta».
Alda Merini sostiene che la libertà di un uomo si misuri in base all’intensità dei suoi sogni.
«Per me i sogni sono una cosa molto concreta: sono dei progetti. Non riesco a separare il sogno dall’idea del progetto e non ho sogni nel cassetto. I miei cassetti son tutti aperti e sono lì, a vista, perché io possa sempre avere una suggestione da cogliere al momento giusto».
Che sogni ha covato in questi decenni?
«Alla mia portata. Non ho sognato l’impossibile, ma il possibile. Ho cercato di fare cose che mi sembravano congeniali, ma non ho mai fatto programmi, forse sbagliando, a lungo termine. Da bambino mi piaceva la musica e ho provato a trovare la strada che mi aiutasse a sublimare quel sogno. Non sapevo scrivere, non sapevo cantare, non sapevo suonare. Non sapevo fare niente, però sapevo cosa mi piaceva. Così ho iniziato a fare il dj tentando di coinvolgere tutti quelli che potevo nella mia passione. E da quel primo piccolo viaggio tra una discoteca di Cortona e Radio Foxes, a pioggia, sono arrivati tanti altri viaggi».
Un altro avamposto di libertà. Lo ha cantato, il viaggio. Lo ha sperimentato.
«I viaggi dal mio punto di vista sono quasi dei progetti di scrittura: per me non c’è differenza tra un viaggio e un disco, un viaggio può essere figlio di un album e viceversa, ma alla base di una partenza o di un verso c’è sempre la libertà».
Come l’ha spiegata a sua figlia Teresa questa parola così tonda, così piena?
«Forse l’ha spiegata lei a me. Eravamo in casa, aspettavo un fax e Teresa, che allora era molto piccola e aveva iniziato a parlare da poco, si mise davanti ai fogli che uscivano dalla stampante e mi disse: “Babbo, ascolta questo rumore, sembra che dica li/be/rtà, li/be/rtà, li/be/rtà”. Camminava come un manifestante, quasi marziale, davanti a quel piccolo miracolo della tecnologia e mentre lei armava quello spettacolo capii che mi stava insegnando qualcosa che non ricordavo più».
Che cosa?
«Che per i bambini i suoni arrivano sempre prima dei significati, ma spesso quei significati hanno comunque un loro senso. Da ragazzino mi fissavo con le parole senza prendermi tanto cura di cosa volessero dire. Ce n’era una che ripetevo in maniera un po’ ossessiva e quella parola era: libertà».
Si innamorava spesso delle parole?
«Pensi che sono andato a Cuba per la prima volta perché mi ero innamorato di un suono. Da piccolo pensavo: “Cuba deve essere un bel posto, è un cubo femmina forse?”. C’era una magia in quella parola. Questa cosa qui, la magia delle assonanze non necessariamente legate al senso compiuto, chi fa il cantante non dovrebbe perderla mai. Altrimenti poi si cominciano a scrivere canzoni che piacciono solo a quelli che pensano di essere intelligenti e che ovviamente lo sono meno di quanto non presumano perché sono impegnati a giudicare. Chi giudica secondo me deve stare nei concorsi». (sorride)
Invece?«Invece le canzoni devono piacere a tutti: agli intelligenti di cui c’è sempre un gran bisogno, ma anche al cuore, ai piedi e alla voce. Devono scuoterti, farti ballare e cantare a perdifiato, le canzoni».
Se non le si dedicano attenzioni e cure, la libertà svanisce. È stato difficile non perderla per lei?
«È un lavoro costante. Non passa un giorno senza che mi chieda: quanta libertà ho praticato oggi in ciò che faccio e che scrivo? La risposta non è mai affermativa né consolatoria al cento per cento. La maggior parte delle volte, anzi, registro un fallimento. I rapporti non quadrano, i rimorsi si fanno sentire, il senso del dovere mi schiaccia e la pressione mi intristisce. Ma poi, penso, il lavoro della vita è saperci star dentro con forza, cercando di capire se c’è una luce».
Per seguirla?
«Per seguirla e per agitarla. La libertà è il contrario della nitroglicerina, che deve stare immobile per non provocare disastri. La libertà invece va agitata. Sempre. Appena la fermi, la ingabbi e pensi di dominarla, quella ti frega e ti ritrovi con il culo per terra».
La libertà è un’aspirazione?
«È una vocazione. Faccio parte di una generazione che non ha dovuto sacrificare la vita per conquistarla e per cui i fondamenti della libertà e i diritti erano quasi acquisiti. Ciò nonostante, l’ho sempre idealizzata. Vera, mia zia, la sorella di mio padre, professoressa, comunista di stretta osservanza, era incuriosita dalla mia posizione: “Ma tu sei proprio fissato con la libertà”, mi diceva con tono di rimprovero affettuoso. “Ma è veramente così importante per te?”, mi domandava».

E lei che cosa rispondeva?
«Dal mio punto di vista la libertà è una precondizione senza la quale non esiste tutto il resto. Per lei la libertà era la conseguenza di una politica giusta e di un mettere in fila le cose fino ad avere una risultante. Eravamo su posizioni apparentemente inconciliabili, ma discutevamo. A me la dialettica piace e sul tema della libertà posso confrontarmi anche e soprattutto con chi non la pensa come me: gli unici con cui non riesco a farlo sono quelli che discettano di libertà, ma intendono che l’unica libertà che conti sia la loro. Dicono di amarla, ma amano soltanto la propria. Ne parlano sempre con il volto contrito, come se la libertà fosse un loro possedimento esclusivo. Ma se ce l’hanno solo loro, che libertà è?».
In famiglia invece come ha trovato la sua libertà?
«Essere il terzo figlio mi ha dato una gran mano e mi ha concesso molta più libertà di quella toccata in sorte ai miei fratelli. Le aspettative e le pressioni dei miei genitori erano su mio fratello maggiore e alla fine, lo dico nella migliore accezione possibile, io sono passato un po’ inosservato. Non è che mi si filassero tanto ed è stato un bene. Ero l’ospite inatteso: come se fossi arrivato a un party al quale non ero stato invitato e dove era già accaduto tutto. Una posizione invidiabile: perché partecipi alla festa, ma non sei il festeggiato e non sei al centro dell’attenzione. Sei quello che si gode tutto e non paga pegno».
Sembra la storia di Giovanni Veronesi e di suo fratello maggiore, Sandro. Mentre Sandro e suo padre discutevano, Giovanni approfittò della confusione e lasciò Prato per Roma.
«È esattamente così: Giovanni racconta una sensazione che conosco molto bene. Mentre mio padre e i miei fratelli litigavano sulle grandi questioni, io mi spingevo al largo. È stata la mia fortuna, ma la fortuna, quando passa, bisogna saperla cogliere. Se si apre uno spiraglio nella porta, ti ci devi sapere infilare».
In uno dei suoi film preferiti, The Truman Show, la porta è un simbolo. Protegge e insieme imprigiona il protagonista.
«È un film facile da amare, ma è anche un film intriso di tragedia. La vita è proprio così. Piena di pericoli. Ma è esattamente lì, dentro quella commistione di bellezza e pericolo, che vale la pena muoversi. Non c’è altro. Se non c’è pericolo, non c’è neanche libertà. La vita è pericolosa e le ultime settimane ci hanno ricordato che può esserlo persino mangiare un gelato».
Non ci avevamo riflettuto abbastanza?
«Lo stiamo facendo nuovamente su ciò che davamo per scontato. La nostra stessa vita è un film, ma per me questo è un tempo molto interessante da vivere perché la nostra è un’epoca in cui si possono ristabilire relazioni autentiche con molti aspetti della vita: con le persone, con la natura, con un’idea di futuro. È come se la malattia globale sia stata una risposta a una domanda che non osavamo fare. E la risposta è quella che le dicevo prima: la vita è pericolosa, la mortalità è davanti ai nostri occhi come lo è per il pilota di Formula Uno. Ha visto le macchine? Tra lo sguardo del pilota e il tracciato, nell’abitacolo, c’è un bastone. Ho domandato a una persona che in Formula Uno lavora, come si faccia a guidare guardando quel bastone e la risposta mi ha sorpreso: “Semplice, i piloti non lo vedono. Non lo vedono perché guardano oltre”. La mortalità è questa cosa qui: possiamo concentrarci solo su di lei, andare a sbattere e smettere di vivere, oppure possiamo sapere che c’è e dobbiamo andare oltre».
Le piace la parola ironia?
«Preferisco allegria. È più adatta a me. L’ironia è l’abito, meraviglioso, di un Woody Allen, ma presuppone un percorso diverso. Un distacco da quel che vivi. Uno sguardo un po’ laterale. La apprezzo, ma non mi ci sento completamente a mio agio. L’allegria invece è più empatica: è quella di Stanlio e Ollio, di Amici miei, di Bud Spencer e Terence Hill. È più dichiarata, meno mimetica. In fondo più libera».
Libertà è sinonimo di estate. L’anno scorso ballavamo in spiaggia. Questa promette di essere una stagione diversa.
«Quell’estate è dentro di noi, così come resta dentro di me lo spirito di quei concerti. Torneremo ad abbracciarci. L’altro giorno sono andato a Pienza in bici: ho preso un caffè in un bar che aveva appena riaperto: “Come vanno gli affari?”, ho domandato e la signora mi ha risposto con un sorriso meraviglioso: “Adesso male, ma ci riprenderemo”. Sono convinto che abbia ragione. Ci sono tutte le condizioni».
Che cosa ha imparato in questi tre mesi?
«Che si può vivere a un’altra velocità. A un volume diverso. Quando in bici buchi una gomma, per ripartire devi fermarti a ripararla. A noi è capitato lo stesso. Abbiamo bucato, ci siamo fermati e adesso ricominciamo. Siccome siamo esseri umani riprenderemo a correre e talvolta a darci qualche colpo proibito, ma questo periodo non sarà comunque trascorso invano. Abbiamo imparato tante cose, non solo a riparare una gomma».