la Repubblica, 4 giugno 2020
Tutti gli uomini dello Zar Putin
In via Barberini a Roma si trova un palazzo con un ampio colonnato bianco. Alla destra dell’ingresso, i nomi dei residenti e degli uffici sono ben stampati sulle targhette dorate dei campanelli. Quando, verso la fine del secolo scorso, ne varcai la soglia ero sulle tracce di un boss della mafia russa che operava da qualche tempo nella capitale. Grazie all’aiuto di alcuni faccendieri italiani, aveva creato una società di “analisi di mercato e di import-export” con sede proprio a quell’indirizzo. Il boss russo si trovava a Roma per organizzare il riciclaggio su vastissima scala dei profitti di decine di famiglie mafiose russe emerse dal caos post sovietico. Ma sulla porta dell’appartamento in questione vi era una seconda insegna, di una rispettata società commerciale svizzera e con una sede in Israele. Il referente in Italia era Dmitrii Naumov. Mentre il boss russo di cui andavo alla ricerca aveva passato diversi anni in galera ed era un ladro-in-legge, un pezzo grosso del mondo criminale, Naumov aveva fatto altri studi: si era laureato all’accademia del Kgb e operava sin dagli anni Ottanta sotto copertura in diverse capitali europee. Gestiva flussi finanziari provenienti dall’Urss che servivano a foraggiare operazioni di destabilizzazione in Occidente e ad importare in Unione Sovietica tecnologia soggetta a sanzioni. All’indomani della caduta del muro di Berlino, funzionari come Naumov si attivarono per trovare canali per far uscire dal paese i beni del Partito Comunista e nasconderli in quelle società fittizie che già estivano da decenni. In quel mondo di mezzo, le spie convivevano felicemente con la criminalità organizzata.
La storia di Naumov è un piccolo tassello dello straordinario affresco dedicato alla Russia contemporanea dall’ex corrispondente del Financial Times a Mosca, Catherine Belton, Putin’s People: How the KGB Took back Rusia and then Took on the West (William Collins). Il libro, uscito a fine aprile, è già un caso editoriale in Inghilterra, recensito da tutti i maggiori quotidiani e di prossima pubblicazione negli Stati Uniti. Frutto di otto anni di lavoro certosino, basato su un centinaio di interviste con i maggiori protagonisti dell’epoca (alcuni dei quali preferiscono rimanere anonimi), il saggio ricostruisce come “i Putiniani” fanno funzionare il sistema occulto delle tangenti. Belton racconta anche fatti poco noti o del tutto inediti sulle attività in Germania del futuro Presidente. Dresda, dove ha operato Putin dal 1985 al 1990, era il cuore delle operazioni commerciali per «ottenere valuta pregiata... e tecnologia occidentale sottoposta ad embargo» da condividere con Mosca. Agenti tedeschi e russi crearono società di comodo con sedi in Germania, Austria, Svizzera e Lichtenstein. Putin era il «faccendiere capo» dei fondi neri che passavano per la Germania dell’Est, secondo Horst Jehmlich, il vicedirigente della Stasi di Dresda. L’autrice scova persino un ex membro del gruppo terroristico Raf che sostiene di aver incontrato Putin e di aver ricevuto dal Kgb armi e denaro. Secondo Benton, Putin ha affinato i ferri del mestiere a Dresda e li ha continuati ad usare quando è arrivato al Cremlino quasi vent’anni dopo.
Putin si trasferì a San Pietroburgo nel 1990 per lavorare nell’amministrazione del sindaco Anatoly Sobchack, dove il suo compito consisteva nel gestire gli investimenti esteri. Un imprenditore straniero arrivato per incontrare i funzionari del Comune venne scortato dalla polizia al cospetto di Ilya Traber, il rappresentante della Tambovskaya, il gruppo criminale che controllava il porto, in una residenza-bunker fuori città. Circondato da guardie armate e cani con denti digrignati, al collo una catena d’oro, Traber indossava una tuta da ginnastica e ciabatte di plastica, la divisa d’ordinanza del boss russo di quegli anni. Dopo aver ottenuto il permesso da Traber, l’imprenditore fu rispedito in città per finalizzare il contratto con il funzionario del comune, Putin appunto. Parte dei profitti di quelle joint-venture venivano nascosti nei conti di società di comodo e diventavano tangenti estero- su-estero per politici e amministratori. Belton non misura le parole quando sostiene che vi fosse un patto tra mafia e politica a San Pietroburgo, anche se gran parte delle sue fonti rimangono anonime.
Chiamato a Mosca nel 1996, Putin deve la sua ascesa alla presidenza alle sue qualità personali, piuttosto che essere frutto di un piano preordinato dai servizi segreti, come sembra suggerire l’autrice. Pur essendo un ex funzionario del Kgb e quindi sospetto agli occhi dei democratici, riuscì ad accreditarsi presso i politici corrotti e i familiari di Yeltsin come un efficiente esecutore, senza ambizioni personali, disposto a proteggerli dalle indagini della procura. «Sono solo un manager, assunto per portare a termine un compito limitato», ebbe a dire. Intorno al 1999 Putin diventò così il successore designato e per un solo mandato, con l’appoggio convinto dell’occidente terrorizzato che i “comunisti” potessero vincere le elezioni parlamentari e poi la presidenza. Osservatori stranieri e cittadini comuni non avevano mai sentito parlare di questo grigio funzionario. Ricordo ancora lo stupore quando in Russia sentimmo la notizia al telegiornale. Per accreditarlo con gli elettori stanchi della corruzione del regime di Yeltsin, Belton abbraccia la tesi che gli attentati terroristici del 1999 (che fecero 367 vittime) furono orditi per facilitare le chance del candidato, anche se gli indizi rimangano incerti e tutti negano.
Eletto nel 2000, Putin si rivelò molto più astuto dei suoi padrini politici. Un episodio rivelatore avvenne la notte della sua elezione, quando fece sapere di essere troppo impegnato per rispondere ad una telefonata di Yeltsin. Putin aveva un progetto politico: riaffermare il potere dello Stato a scapito dei potentati economici. Quando Mikhail Khodorkovsky, all’epoca l’uomo più ricco del mondo e padrone della società petrolifera Yukos, si mosse per far entrare Exxon e British Petrolium nel capitale di Yukos, Putin piegò il sistema giudiziario per farlo arrestare e smembrare l’azienda. Fu l’inizio del capitalismo di stato e la fine dell’indipendenza della magistratura. Gli Usa fecero flebili proteste e ben presto i banchieri occidentali si ritrovarono a fare la fila per gestire le aste dell’impero di Khodorkovsky smembrato da Putin. Belton racconta come una parte della classe politica e finanziaria londinese sia stata comprata con lucrosi posti nei consigli di amministrazione di aziende di stato russe. Ben pochi personaggi escono con onore da questa storia, eccezion fatta per giornalisti come Anna Politkovskaya.
Col tempo Putin ha sostituto l’ideologia comunista con il cristianesimo ultra-conservatore della Chiesa Ortodossa e con visioni messianiche della Terza Roma, alimentate da aristocratici russi cresciuti in esilio tra Parigi e Ginevra. L’oligarca di stato Konstantin Malofeyev guida la Fondazione devota a San Vasilio il Grande dedita a promuovere queste idee, ma si diletta anche di geopolitica: una azienda controllata da Malofeyev e da un suo dipendente avrebbe dovuto essere l’intermediaria per l’operazione discussa da Savoini all’hotel Metropol e mai andata in porto, come racconta l’indagine de L’Espresso.
Non è facile prevedere come (e quando) finirà l’era di Putin. Senza dubbio, vi sono elementi di fragilità. Con il prezzo del petrolio ai minimi storici e gli investimenti stranieri drasticamente diminuiti, le casse dello stato sono quasi vuote e i soldi per i vassalli diminuiscono. Gli effetti della covid19 non saranno positivi per la classe media, che teme per il proprio futuro. Belton descrive la Russia di Putin come un regime interamente controllato dal centro, ma altri pensano che esso sia policentrico. Certo la vita del Putiniano non è sempre facile. Dmtrii Naumov, il russo di via Barberini, ad un certo punto smise di essere utile. Tornato a Mosca, venne freddato da due sicari in un hotel del centro. Da questo gioco spesso si esce solo con i piedi davanti.