Il Messaggero, 4 giugno 2020
Intervista a Eshkol Nevo
Che cosa spinge uno scrittore israeliano di caratura internazionale come Eshkol Nevo ad accettare i tempi narrativi di una rubrica giornalistica? Mosso dalla curiosità di misurarsi con una sfida nuova, all’inizio del 2019, l’autore di Simmetria dei desideri e Tre piani Nevo ha accettato di scrivere per la rivista Vanity Fair una serie di racconti brevi, ispirati da una parola per ogni lettera dell’alfabeto, che ora sono diventati un libro, Vocabolario dei desideri (Neri Pozza, 110 pagine, 18 euro, traduzione di Raffaella Scardi dall’ebraico) con le illustrazioni di Max Paloscia. Nevo, con la consueta abilità nel tessere mosaici di storie, parte dalla parola desiderio per esplorare un ampio spettro dei sentimenti e delle relazioni umane. «In precedenza ho rifiutato qualsiasi offerta del genere racconta Nevo. In questo caso mi piaceva l’idea dell’alfabeto».
Nevo, l’etimologia della parola latina desiderio è molto interessante. Che cosa scaturisce dalla ricerca di ciò che manca?
«Le storie che racconto hanno una doppia direzione: rievocano il desiderio di qualcosa che è già avvenuto o si è perso, ma al contempo lavorano con l’immaginazione e l’energia propria del desiderio che afferisce alla nostra intimità e a quella delle relazioni. I racconti toccano anche l’elemento erotico e il desiderio sessuale che più è impossibile più si dimostra accattivante. Esploro l’importanza del mistero che anima il desiderio».
Qual è il legame tra amore e solitudine?
«È la domanda complessa con la quale apro il libro e lega molti racconti. Talvolta il desiderio comincia dalla solitudine. Il narratore di A come Amore lo immaginiamo solo in hotel in un paese a lui straniero. La memoria dei suoi amori lenisce quella condizione. Le storie che custodiamo nella memoria colmano quel vuoto come l’esperienza della scrittura e della lettura. Pensando alla letteratura italiana, quando leggo i romanzi di Natalia Ginzburg, che amo molto, mi sento meno solo».
La scelta di Italo Calvino per la lettera i sembra un omaggio alla letteratura italiana. Quando è entrato in contatto con i suoi romanzi?
«La conoscenza con quello che sarebbe divenuto il mio scrittore italiano preferito è avvenuta in Sud America. Avevo 24 anni dopo il servizio militare. In un mercato di libri in ebraico incontrai una ragazza e mi diede Se una notte d’inverno un viaggiatore. Lo iniziai a leggere in una stanza d’albergo spartana a Isla del sol in Bolivia».
E che cosa accadde?
«Saremmo dovuti ripartire dopo una notte. Mi fermai tre giorni fino alla conclusione del romanzo. Non avevo mai letto niente del genere, era così liberatorio. In quel periodo scrivevo solo lettere e racconti, volevo diventare uno scrittore. Mi dissi questa è la libertà ed è il gioco a cui voglio partecipare».
Perché alla lettera g ha scelto guerra?
«Avevo molte opzioni con temi senz’altro più semplice, ma avverto ancora forte l’urgenza di scriverne. Una volta raggiunta una certa età gran parte degli israeliani devono confrontarsi con forme non necessariamente disfunzionali dello Stress Post Traumatico. L’esperienza di aver servito l’esercito in guerra o in operazioni militari non ti abbandona mai».
Lei quando è stato un soldato?
«Dal 1989 al 1993. Non ho accusato la sindrome da SPT, ma tornando dal viaggio in Sud America, due anni dopo l’esercito, ho cominciato a percepire costanti flashback delle attività militari nel corso dell’Intifada».
È un’eredità diversa da quella di suo padre?
«Lui ha superato due guerre, quella dei Sei giorni e del Kippur. Le sue sfide emotive, psicologiche e fisiche sono state più ardue delle mie. È diventato uno psicologo e ha assistito persone che hanno attraversato i suoi traumi. Li vedevo sfilare nello studio a casa. La cosa per me più complessa è stata il dovermi confrontare da militare con dei civili. Quando combatti un esercito che si propone di cancellare il tuo Stato o conquistarlo è più semplice accettare la guerra. Dunque le mie memorie morali si misurano con questo conflitto interiore. E, trent’anni dopo, posando lo sguardo non mi sento bene per alcune cose che abbiamo fatto».
Il racconto che affronta il razzismo è autobiografico?
«Sì, è l’unica storia tratta integralmente da un episodio reale, partendo dall’incontro in un supermercato tra mia figlia di nove anni e due donne arabe molto generose».
In che modo si esprime oggi il razzismo in Israele?
«Nel Paese, quando si nomina questa parola, la prima associazione è con l’Olocausto. L’antisemitismo, ancora manifesto, è la paura di fondo scritta nei geni di ogni ebreo. L’eredità delle persecuzioni dei pogrom ai campi di concentramento ci porta a considerare soprattutto al razzismo contro di noi. Come scrittore israeliano per me è importante a guardare non solo quando siamo vittime, ma quando la nostra società si dimostra razzista con le altre minoranze come gli arabi israeliani che sono parte integrante della società. Ma esiste un razzismo radicato e profondo nei confronti degli arabi in Israele, che contraddice l’idea stessa di uno Stato sorto sulle macerie del razzismo».
Qual è il desiderio più profondo del nostro tempo?
«La ricerca e la costruzione di un’intimità con gli altri, ma forse come non mai non sappiamo come farlo».
Ricorda la cosa più bella che le ha detto un lettore?
«È stato a Milano durante una presentazione: Ho letto il suo libro e finalmente sono riuscita a perdonarmi. Si riferiva al romanzo Tre piani, che in fondo investiga l’atto della confessione. Perché ci confessiamo? Con chi lo facciamo o faremmo? E che cosa si può considerare peccato in un mondo senza fede?».
Ha avuto contatti recenti con Nanni Moretti che porterà nei cinema l’adattamento di Tre piani?
«In questi giorni sarei dovuto essere a Roma per la conferenza di presentazione del film. Non ho contribuito alla sceneggiatura, ma ho avuto scambi con Moretti e sono contento degli adattamenti della storia che ho capito. Lo ammiro e ho riposto piena fiducia. Mi ha invitato durante le riprese e abbiamo conversato a lungo».
Le manca Amos Oz?
«Sì. È stato un maestro e un amico. Da lui ho imparato molto sulla modestia, la generosità e come combinare la chiarezza politica e la sottigliezza letteraria».
Quali sono gli effetti dell’impasse politica che segna il paese?
«Gli elettori sembrano aver indicato ai politici israeliani la necessità di trovare un terreno comune d’incontro. La situazione è tuttavia instabile con il procedimento penale pendente sul Primo ministro Netanyahu accusato di corruzione. Dovremmo cercare una via per lavorare oltre le differenze. La domanda fondamentale ormai è: quali sono i valori fondamentali e condivisi che possiamo chiamare Israele?».
Che cosa le ha lasciato il confinamento nella pandemia?
«In Israele l’impatto meno violento, ma parlando costantemente con amici italiani ho percepito il dolore e il trauma. Come scrittore è stata un’esperienza intensa nella quale ho scritto molto fra racconti e la conclusione del nuovo romanzo. Lo ricorderò come un periodo creativo della mia vita».