Corriere della Sera, 3 giugno 2020
Intervista a Ratko Rudic
Prima di tutto, una buona notizia: l’addio di Ratko Rudic non è alla pallanuoto, ma solo al ruolo di allenatore. La waterpolo, insomma, avrà ancora il mago delle vittorie. «Ci sono vari progetti che potrei seguire, cominciando da uno, no profit, per i giovani. Devo solo capire come sarà lo sport dopo la pandemia: torneremo alla normalità o ci sarà una nuova normalità?». Intanto Rudic, 72 anni il 7 giugno, dipinge quadri, la sua passione: in una casa di famiglia, in montagna a un’ora da Fiume, traccia schizzi e colora. «Né paesaggi né ritratti, sono per la pittura astratta».
Ratko, la riportiamo in piscina perché ha lasciato in anticipo il Recco: assieme al Partizan Belgrado, guidato 30 anni fa, è stato la sua unica squadra di club. Doveva proprio chiudere così?
«Volevo la vittoria nella Champions: l’anno scorso l’ho mancata e ancora oggi è un trauma perché la sconfitta mi procura un dolore fisico; quest’anno, invece, il sogno l’ha ucciso il coronavirus».
Un viaggio straordinario, il suo: cinque Nazionali e successi su ogni fronte.
«Non scordo di essere stato anche un buon atleta. Ma non ho mai usato l’autorevolezza di giocatore nel ruolo di coach: sono ripartito da zero. I momenti migliori? Aver vinto tutto con l’Italia dal ’92 al ’95, aver centrato l’oro olimpico con la Croazia, il mio Paese, vent’anni dopo il trionfo con gli azzurri a Barcellona. E poi, chiaro, il back to back ai Giochi con la Jugoslavia: Los Angeles ’84, Seul ’88».
C’è una classifica del cuore?
«Impossibile. Ho sempre preso ogni squadra con cuore e cervello, imparando cultura, lingua e storia dei vari Paesi».
«Se loro duri, noi durissimi»: ci spiega la filosofia di una delle sue frasi di culto?
«Riguarda la mentalità. Quando sono arrivato in Italia si discuteva se i giocatori potessero competere con rivali più alti e fisicati. Ho detto che c’entrano di più cuore, solidità mentale e approccio: se giocano duro, dobbiamo fare di più. La tattica a un certo punto lascia posto al corpo».
Un’altra sua frase celebre: «sono un divulgatore, non sarò mai un politico».
«È così. La politica mi ha cercato, ma non fa per me. Vale pure per quella sportiva».
Con Julio Velasco avete ribaltato le Nazionali di volley e pallanuoto.
«Julio criticava che l’Italia si sentisse battuta in partenza: c’è chi è più forte di noi, ecco l’alibi. Anche nella pallanuoto era sbagliato il passo iniziale. A volte perdi, ma la sconfitta va usata per definire un traguardo: per me era sempre la medaglia d’oro».
Lei e Velasco, primedonne in senso positivo. C’è mai stata rivalità?
«Per nulla. Ci incontravamo anche con Arrigo Sacchi, parlavamo di metodologie e di tanto altro: Julio ha belle idee e le sa esprimere, era un piacere confrontarsi con lui».
Si dice che Sacchi fosse ossessivo.
«Sbagliato. Il suo metodo era basato su precisione, organizzazione, rispetto dell’allenamento. Concordo con lui: nell’allenamento devi trasferire il clima, psicologico e tecnico, della partita. Più che duri, serve essere seri».
Vista la frantumazione negli anni 90, la Jugoslavia aveva davvero un’anima comune?
«L’aveva, forte, nello sport. Ogni Paese ha le sue diversità: in Italia pensate al Nord e al Sud. La Jugoslavia non era a sua volta omogenea, ma nello sport annullava le differenze con gli obiettivi: il gruppo creava unità oltre la politica».
Direbbe ancora che i giocatori devono odiare gli allenatori?
«È un concetto forte. Ma quando la squadra si è ribellata a me, si è compattata. Inoltre l’allenamento si eleva all’altezza della partita solo se metti i giocatori in difficoltà sul piano fisico psicologico».
Il nuoto è esploso a livello planetario. Invece alla pallanuoto manca ancora qualcosa. Concorda?
«Il problema della waterpolo è che è inserita nella Federazione di uno sport individuale, pur essendo uno sport di squadra che ha esigenze diverse».
Rifarebbe la rissa di Sydney, che le è costata un anno di squalifica e il licenziamento da parte dell’Italia?
«Ho sbagliato. L’Ungheria ha meritato di vincere, ma noi siamo stati danneggiati. Ero troppo coinvolto emotivamente, ho liberato frustrazioni: colpa mia, però non rinnego nulla».
Quella con gli Usa, interrotta nel 2005 per allenare la Croazia, è una missione incompiuta?
«No. Ho riorganizzato la pallanuoto statunitense: il programma arrivava fino al 2008 e dopo l’argento ai Giochi di Pechino tanti mi hanno ringraziato».
Dal 2013 al 2016 ha guidato i brasiliani.
«Sono stati una sorpresa. Hanno un’etica straordinaria: la medaglia è stata la crescita nel ranking mondiale».
Come si diventa Rudic?
«Di base servono metodo, organizzazione e mentalità».
Cosa ha pensato ai Giochi di Londra quando ha negato l’oro alla sua Italia e al suo ex allievo Sandro Campagna?
«A Sandro ho detto che non potevo non essere convinto di vincere. Ma ho aggiunto che se avesse vinto lui sarei stato ugualmente felice».