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 2020  maggio 30 Sabato calendario

Intervista a Herta Müller su "La volpe era già il cacciatore" (Feltrinelli)

Il muro era caduto, il regime di Ceausescu era finito, e Herta Müller si trovava a Berlino – dove vive e lavora ancora oggi - dopo aver abbandonato la Romania per sottrarsi alla dittatura, alla censura, alla vita angusta e oppressiva dell’ultimo paese rimasto sotto l’ombrello comunista. Il premio Nobel per la Letteratura sarebbe arrivato nel 2009, ma in quel 1992, quando uscì il suo primo romanzo – dopo una serie di racconti censurati in patria – quel traguardo sembrava appartenere a un mondo di pace e libertà difficile da concepire. Oggi quel libro – La volpe era già il cacciatore – esce in Italia da Feltrinelli con la traduzione di Margherita Carbonaro. E con il ritmo di una scrittura aspra e poetica, racconta un mondo dominato dal sospetto, dal tradimento, dalla delazione.

Frau Müller, “La volpe era già il cacciatore” è stato il suo primo romanzo. Da dove nacque la scelta del titolo?
«Ero ancora una bambina e in una giornata d’inverno sono andata a piedi con mia madre, in mezzo alla neve, fino al villaggio vicino. Volevamo comprare una pelle di volpe per il colletto di un cappotto, sarebbe stato il mio regalo di Natale. La pelle era una volpe intera e mandava uno scintillio rosso rame, come fosse di seta. Aveva la testa con le orecchie, il muso secco e i cuscinetti neri e secchi sulle zampe, gli artigli bianchi come porcellana e una coda così vaporosa che sembrava attraversata ancora dal vento. La volpe non viveva più nel bosco ma nella sua bellezza conservata. Ed era un po’ sinistro il fatto che il cacciatore avesse i capelli rossi come la volpe. Gli chiesi se l’avesse ammazzata lui. Lui disse che alle volpi non si spara, sono loro a cadere in trappola. Io non volevo assomigliare alle signore anziane che portavano al collo una volpe intera con tanto di testa e di zampe. Volevo solo una pezzetto di pelliccia sul colletto. Ma la volpe era troppo bella per essere tagliuzzata. E così mi accompagnò per anni, sdraiata sul pavimento come un animale da compagnia in tutti i posti dove ho vissuto. All’epoca in cui lavoravo come traduttrice in una fabbrica mi rifiutai di spiare i miei colleghi e gli amici per conto dei servizi segreti. Fu così che persi il lavoro. Cominciarono allora le vessazioni, gli interrogatori con le minacce di morte. La pelle di volpe stava davanti all’armadio. Un giorno la urtai con il piede e la coda si scostò. Era stata tagliata. Settimane dopo la zampa posteriore destra venne tagliata, poi quella sinistra. Un paio di mesi più tardi, l’una dopo l’altra, anche le zampe anteriori. Quando non ero in casa, i servizi segreti entravano. Lasciavano tracce, quando lo volevano. Sulla porta esterna non si vedeva niente. Ormai sapevo che dappertutto, e persino a casa, poteva succedermi quello che era successo alla volpe. Quando lo raccontai a mia madre, tutte e quattro le zampe erano già state tagliate. Mia madre mi chiese: cosa vogliono da te? Io dissi: paura. Questa breve parola si spiegava da sé. L’intero Stato era infatti un edificio di paura. C’erano i governanti della paura e il popolo della paura. È di questo che parla il romanzo, e il titolo viene da qui».

Nel romanzo lei descrive la vita quotidiana nella fase finale del regime di Ceaușescu. Quanto tempo ci vuole perché gli effetti di una dittatura nella vita di ogni giorno arrivino a neutralizzarsi?
«Gli effetti di una dittatura non scompaiono. Certo non nella vita di chi è stato perseguitato, ma nemmeno in quella di chi si è conformato e che non ammetterà mai di essere stato un opportunista. Perciò la storia viene falsificata. A livello collettivo e individuale. Anche nel 1945, dopo l’epoca del fascismo rumeno, la storia è stata falsificata. La Romania, che aveva combattuto al fianco di Hitler, affermò in seguito di essere stata alleata dei sovietici fin dall’inizio. Non c’è niente di vero in questo. C’erano state le leggi razziali e i pogrom. In Bucovina gli ebrei e la cultura ebraica furono quasi completamente annientati. E il campo di concentramento in Transnistria, dove furono uccisi anche i genitori di Paul Celan, era sotto direzione rumena. Ancora oggi gli intellettuali nazionalisti in Romani negano il coinvolgimento del paese nello sterminio degli ebrei. L’antisemitismo persiste nella quotidianità. Dopo il fascismo arrivò lo stalinismo, poi la successiva fase del socialismo. A una dittatura ne subentrò immediatamente un’altra. La Securitate era l’organizzazione criminale del partito comunista. Così sarebbe stato giusto definirla dopo il 1989. Si sarebbe dovuto eliminare completamente l’una insieme all’altro e processare i responsabili. E invece si è mentito, si è falsificato e taciuto. Nel 1989 il crollo delle dittature nell’Europa orientale è stato per la maggioranza della gente un momento di esaltazione collettiva, un’esplosione di gioia. Come una festa. Dopo l’euforia torna però la quotidianità. Anche quella doveva essere nuova, ma non si sapeva in che modo. Solo la vecchia guardia sapeva come garantirsi i propri privilegi. La gente non immaginava niente, mentre l’élite del partito mascherava astutamente la realtà. In questo erano addestrati. Tutto veniva chiamato libertà e non si diceva mai in cosa questa consistesse. Qual è il grande problema in tutta l’Europa orientale? Le distruzioni provocate dalla dittatura non sono state analizzate. Nessuno voleva guardare indietro, tutti volevano scrollarsi di dosso il peso della dittatura, volevano qualcosa di nuovo, democrazia. Ma non si sapeva cosa fosse, la democrazia. I decenni di vita sotto tutela hanno fatto sì che nel disorientamento oggi ritorni il bisogno di soggiacervi ancora. Un’istituzione di tutela viene scambiata per un aiuto nella vita quotidiana. Questo è un danno collettivo, ed è ciò che sta all’origine della ricaduta a cui assistiamo in tutta l’Europa orientale, che nessuno in Occidente si sarebbe aspettato».

Quali sono gli aspetti del libro che si augura possano essere raccolti dal pubblico italiano?

«Forse il libro può aiutare a comprendere la solitudine nella paura. Dopo che fui cacciata via dalla fabbrica in cui lavoravo mi capitava ogni tanto di ricevere un incarico da supplente in qualche scuola. Già dalla strada sentivo il forte ronzio delle voci nella stanza degli insegnanti. Non appena aprivo la porta ed entravo calava il silenzio, come in una chiesa. Quanti più “colleghi” mi stavano attorno, tanto più chiaramente ero sola. Alla fine della giornata andavo come tutti alla fermata dell’autobus. Nessuno voleva farsi vedere in strada con me. Una parte degli insegnanti cercava di perdere tempo e si teneva a distanza, alle mie spalle. L’altra parte invece si affrettava, correndomi avanti. Tutto questa succedeva senza che nessuno si fosse messo d’accordo, la paura li aveva addestrati a fare così. Non meno sgradevole della minaccia che mi veniva dallo stato e dai suoi servizi segreti era la solitudine. Gli altri insegnanti mi evitavano. La loro paura raddoppiata mi isolava. Avevano paura dello Stato, e avevano una paura ancora maggiore del nemico dello Stato, cioè di me. Ero un pericolo. Questo succede anche ai personaggi del romanzo».

In che modo la sua scrittura è stata influenzata dall’esperienza della dittatura?
«Trovo insensate molte affermazioni di quegli scrittori convinti che la dittatura abbia reso i loro testi poetici e metaforici, perché solo così potevano essere trasmessi contenuti proibiti. Se nella mia scrittura avessi adottato un certo stile per essere più furba della censura, proprio questo sarebbe stato un’autocensura. Ho cominciato a scrivere per scoprire chi sono e non per pubblicare».

Durante gli anni che ha vissuto in Romania, qual è la cosa di cui più si è sentita depredata?
«Quello che più di tutto mi mancava era la libertà personale. Il fatto che sia scontato e normale potersi muovere ed essere come si vuole. Dire quello che si pensa. E fare quello che si ritiene giusto. Tutto quello che pensavo e ritenevo giusto era invece proibito. E non succedeva solo a me. Per questo nel paese gravava un infinito senso di oppressione – un cattivo umore cronico, che aveva un effetto devastante sugli animi. Si aggiungeva poi il bisogno materiale, anche gli alimenti e i generi di base scarseggiavano. Persino la carta igienica, il sapone e l’aspirina».

Quali sono gli scrittori del ventesimo secolo che ha sentito più vicini?
«La maniera in cui si scrive, quello che si chiama stile letterario, è qualcosa che ciascuno ha per sé. Nei libri di altri autori mi interessano i temi e il loro sguardo sul mondo. La cosiddetta estetica, la lingua, è assolutamente individuale e così dev’essere. Esiste una poesia documentaria, vicina alla realtà nei suoi contenuti e artistica – cioè elaborata con grande cura – nella lingua. Non è una contraddizione, ma una condizione della letteratura che amo leggere. Gli autori in cui la trovo sono Thomas Bernhard, Jorge Semprún o Imre Kertész o Alexander Tišma o Péter Nádas. O i grandissimi rumeni, Eugène Ionescu e Gellu Naum».

Sono passati trent’anni dalla morte di Ceaușescu e di sua moglie. Come giudica il fatto che ancora non sia stata fatta piena luce sulle giornate precedenti quell’esecuzione?
«Non c’è stato nessun interesse a chiarire bene quei fatti perché la verità sulla cosiddetta rivoluzione che portò alla condanna a morte – era stato Ceaușescu, fra l’altro, ad aver reintrodotto la pena di morte in Romania – mostrerebbe probabilmente che si era trattato di una messinscena il cui fine era quello di assicurare il potere del partito comunista. Oggi si chiama socialdemocratico, ma le strutture e il personale sia del vecchio partito che dei servizi segreti sono rimasti gli stessi. Tuttora non si conoscono i responsabili degli scontri sanguinosi a Bucarest, durante i quali furono uccise più di mille persone dopo la caduta di Ceaușescu. Si era parlato allora di terroristi stranieri. Ma era stato un infame tentativo di deviare l’attenzione, allo scopo di destabilizzare la situazione. I comunisti di quella seconda guardia poterono presentarsi in quel momento come salvatori. Un processo contro Ceaușescu avrebbe reso necessario investigare a fondo l’apparato del potere. La sua rapida esecuzione lo impedì. E Ceaușescu, a causa del suo culto della personalità e del suo potere vaneggiante, era così demonizzato che tutti vedevano in lui un mostro e pensavano che avesse meritato la morte».

Concorda dunque con chi dice che si trattò di un colpo di Stato, più che di una rivoluzione?
«Penso che sia stato una specie di putsch interno del partito comunista rumeno, perché Ceaușescu era posseduto da una tale follia e fame di potere da risultare pericoloso anche per quelli che gli erano più vicini. Era totalmente ignorante e aveva un’indole brutale».

Negli ultimi tempi in Italia si è discusso molto se per l’Occidente siano state più rovinose le esperienze del nazionalsocialismo o quelle del comunismo. La sua famiglia ha conosciuto la violenza di entrambi i regimi (il padre era stato nelle Waffen-SS, la madre deportata in un campo di lavoro sovietico in Ucraina, ndr). Cosa può dire a questo proposito?
«Il nazionalsocialismo ha significato l’abbandono della civiltà, la distruzione industriale dell’essere umano, la barbarie dell’ossessione razzista e l’annientamento di tutti gli oppositori politici. Il suo obiettivo era addirittura l’annientamento del normale e naturale senso di empatia umana, dei valori morali. Dopo quell’epoca l’intima sostanza della società era distrutta. Su questa bancarotta totale è arrivato in Europa orientale, come una liberazione, lo stalinismo. Il che ha devastato l’ultimo residuo di umanità che forse sopravviveva ancora, nascosto. In Europa orientale vediamo oggi le conseguenze di entrambe le dittature».