la Repubblica, 30 maggio 2020
Intervista a Fang Fang su "Wuhan. Diari da una città chiusa" (Rizzoli)
"Sarò al sicuro quando uscirò di casa? Il governo mi punirà? I miei libri saranno ancora pubblicati in Cina? Non lo so. Mi sento persa, impotente". Per Wuhan, la città martire del Coronavirus, l’incubo è finito, l’epidemia contenuta, la quarantena sciolta. Ma per Wang Fang, in arte Fang Fang, è iniziato un secondo incubo. La scrittrice 65enne che ha vissuto e raccontato la lunga notte di isolamento della sua città, in un diario online letto da milioni di persone, è diventata il bersaglio di una violentissima campagna in Rete. Le frange più nazionaliste di pubblico e media non le perdonano di avere puntato il dito contro i silenzi delle autorità, la accusano di avere tradito la patria, la minacciano. I suoi Diari da una città chiusa (in uscita il 3 giugno per Rizzoli) ripercorrono i mesi di strazianti emozioni nell’epicentro della pandemia, la sofferenza, il lutto, la rabbia, il sollievo della liberazione, una normalità che non sarà più la stessa. Neanche per lei: "Ma ciò che ho fatto è stato solo annotare quello che vedevo".
Ha iniziato a scrivere i suoi Diari il 25 gennaio, due giorni dopo che Wuhan è stata messa in quarantena. Perché?
"Il direttore della più nota rivista letteraria cinese, Shuohuo ("Raccolto", ndr), mi ha contattata proponendomi una rubrica, Note da una città in quarantena. La situazione a Wuhan era terribile, e anche il mio stato d’animo. Non ho accettato, ma ho iniziato comunque a registrare delle cose sul mio profilo Weibo (il Twitter cinese, ndr). Non avevo alcuna intenzione di scrivere ogni giorno, né avevo pensato a quante persone potessero leggere i post, erano semplici note su quello che stava succedendo e sui miei sentimenti".
Invece i suoi post, pubblicati a mezzanotte, sono diventati un appuntamento fisso per milioni di cinesi, nonostante venissero spesso cancellati dalla Rete. Le autorità le hanno mai intimato di smettere?
"Il mio account Weibo è stato parzialmente sospeso, ma mi sono affidata a un amico che inoltrava i post su WeChat (il social network più usato in Cina, ndr). Solo dopo avere scritto con regolarità per un po’ di giorni ho capito che, ogni notte, decine di milioni di persone aspettavano il nuovo post. Nessun funzionario del governo mi ha contattata, quello che pubblicavo era solo un diario. Anzi, molti funzionari erano miei lettori. Ho pensato di smettere, ma per la semplice ragione che troppa gente mi seguiva. Ero terrorizzata. A quel punto non avevo più la stessa libertà nel registrare gli eventi, ma tutti volevano che andassi avanti, mi hanno incoraggiata. Così non ho mollato".
Cos’è la libertà chiusi in casa, in una città in quarantena?
"Tutti i cittadini di Wuhan hanno cooperato con il governo e sono rimasti a casa per 76 giorni. Anche io. Ha a che fare con il sistema cinese, per molto tempo il popolo è stato abituato a eseguire ordini. Ma è anche legato alla tradizione confuciana, che chiede agli individui di esercitare un controllo su di sé, di limitare i desideri individuali per servire il bene superiore della società. Se non fosse stato per l’autolimitazione di nove milioni di persone, non sarebbe stato possibile contenere l’epidemia in soli tre mesi".
Quali sono stati i momenti più neri?
"Il primo è stato un periodo di panico all’inizio della quarantena. Dopo la notizia che il virus si trasmetteva da uomo a uomo i media non hanno dato più aggiornamenti, e l’impressione era che nessuno fosse al comando. Poi sono arrivate l’oscurità e l’impotenza. Molti contagiati si sono riversati negli ospedali, portandoli sull’orlo del collasso. In quei giorni il tempo era freddo e piovoso, i malati hanno dovuto attraversare la città cercando un ospedale che li accettasse. Le persone in quarantena a casa hanno infettato intere famiglie. I contagiati erano disperati, tutti gli altri impotenti".
Ha perso qualcuno dei suoi cari?
"Rispetto ad altre famiglie, la mia è stata fortunata. Un caro amico ha perso il fratello, un vicino di casa il cugino. Io, vecchi compagni di classe e amici".
Con la morte del dottor Li Wenliang, che aveva denunciato i rischi del virus, c’è stata un’esplosione di rabbia verso le autorità. Cos’è successo, poi?
"Quando Li Wenliang è morto l’intera città si è riempita di una furia straziante. Il governo aveva insabbiato dei dettagli all’inizio dell’epidemia, la rabbia era stata repressa a lungo e all’improvviso abbiamo avuto un’occasione per esternarla. Non provavo un’emozione così intensa da anni, ho preso un tranquillante per dormire e ci sono a malapena riuscita. Ma poi è stato normale che le persone ritrovassero la felicità, dimenticare fa parte della natura umana. Nella natura umana però c’è anche il ricordo; tutti noi custodiamo la memoria di Li Wenliang, le storie degli eroi vengono trasmesse".
Una tragedia espone il meglio e il peggio degli esseri umani. Cos’è il meglio e il peggio di quello che ha vissuto?
"Il meglio sono i volontari che hanno aiutato chi aveva bisogno durante l’epidemia, senza chiedere nulla. Il peggio è legato alla mia esperienza: gli estremisti della sinistra nazionalista hanno iniziato a diffondere ogni tipo di voce sul mio conto, accusandomi di aver esposto il lato oscuro della Cina, di non aver elogiato le misure del governo, di essere una traditrice. Hanno rigirato contro di me la mia richiesta di accertare le responsabilità. Ma io ho solo scritto un diario. Questa è più che cattiveria, è malvagità. Subisco ondate di accuse false da parte di persone infettate di odio. Un lottatore di arti marziali istiga a picchiarmi, altri hanno appeso un dazibao (un poster di denuncia, ndr) nella mia strada. Sono ammutolita, piena di incertezze sul futuro. Almeno per un anno, starò in casa il più possibile".
Come spiega la violenza di questa reazione?
"In Rete accade qualcosa di simile a quello che ho visto da piccola, una seconda Rivoluzione culturale. Non c’è razionalità, tutto è ridotto a brutali insulti e dicerie maligne. Molte persone, poi, credono alla linea ufficiale del governo. Il direttore del Global Times (quotidiano nazionalista di regime, ndr) ha scritto che io ho sacrificato l’interesse del popolo cinese per la fama in Occidente. Molti pensano che sia la posizione del governo, così mi attaccano".
Verrà considerata una dissidente? Lascerà la Cina?
"Non so quello che il governo mi farà. Se non è in grado di sopportare neppure una voce come la mia, questo è un suo problema. Al momento non penso di lasciare il Paese. Sto invecchiando, la mia famiglia e i miei amici vivono qui, abito da più di 60 anni a Wuhan e la amo. Ma non sono testarda, voglio vivere una vita normale, e se un giorno la Cina me lo impedisse dovrei trovare un altro posto dove andare".
Devolverà i proventi del Diario alle famiglie dei sanitari uccisi dal virus. Perché ha scelto di pubblicarlo all’estero?
"Me lo ha suggerito il mio traduttore, Michael Berry. Il mondo era concentrato sull’epidemia a Wuhan, e il mio Diario poteva essere una lente, fornire dettagli. Molto semplice".
Gli altri Paesi hanno ignorato la lezione di Wuhan?
"La città ha suonato una sirena d’allarme. Gli altri avrebbero dovuto stare in guardia, è una vergogna che alcuni non l’abbiano fatto. Sono stati arroganti, forse è un vizio comune dell’umanità".
La città si riprenderà?
"Sì. Wuhan ha già sofferto per una terribile siccità, è stata distrutta dalla guerra, ma questo non ne ha mai spento la vitalità, si è sempre rialzata".
Questa pandemia cambierà la nostra vita per sempre?
"Lascerà una cicatrice profonda, trasformerà l’atteggiamento verso la vita e il mondo, perfino il senso comune. Le persone apprezzeranno la vita ancora di più. La lezione più importante è che non si può controllare tutto ciò che accade. Molti cittadini cinesi sono anche preoccupati per i Paesi che ora affrontano le fasi più difficili del contagio. Il mondo è uno, il destino dell’umanità è uno"n