Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  giugno 02 Martedì calendario

Intervista a Francesca Schiavone

«Stiamo condividendo un’esperienza, la pandemia, che ci costringe a riflettere. I più forti sono quelli che non ne usciranno a mani vuote, ma portandosi dietro qualcosa». La ragazzina milanese spettinata e impertinente che dieci anni fa seduceva Parigi (prima italiana nella storia a vincere uno Slam, terza in assoluto dopo Pietrangeli e Panatta) è diventata grande senza farsi mancare nulla: amori folli (il tennis, ma non solo), una malattia importante e superata, oggi un bistrot sui Navigli («Sifà») e un ritrovato gusto per la vita. A 40 anni (il 23 giugno, auguri di cuore), Francesca Schiavone è molto più della campionessa del Roland Garros 2010 inzaccherata di terra rossa e sogni scintillanti. 
E lei, Francesca, cosa si è messa in tasca dopo il linfoma e il lockdown? 
«Io il mio patrimonio me lo porto dentro. Mi sono ripresa la salute, che non è poco, e il tempo. Ora mi rendo conto di quando vado troppo veloce. Il campione è chi sa fermarsi, respirare e dare alle cose il giusto valore». 
Quale è il giusto valore delle cose? 
«La pace interiore: dopo quello che mi è successo, ho l’obbligo di mantenerla. Quando me lo scordo, chi mi vuole bene mi richiama all’ordine: Franci stacca, prenditi i tuoi spazi. Un caffè, un libro, una passeggiata». 
Quanto è presente, un decennio dopo, il ricordo di quel mitico Roland Garros? 
«È buffo: ricorda più il corpo della mente. La sensazione della pancia e delle gambe per terra sul centrale ruvido, dopo il match point con la Stosur, è qui con me. Sentivo la forma che mi cresceva dentro, partita per partita, fino alla finale. Un’emozione difficile da spiegare». 
Uno stato di grazia? 
«Una presenza grandissima: ero totalmente calata nel momento e nella situazione. Ricordo il pensiero prima dell’ultimo punto: mandami la palla, che la gioco come voglio io. Se mi servi sul rovescio, io la colpisco alta, in anticipo, e te la rimando sul rovescio. Io posso, io faccio, io, io, io. Zero paura, soltanto positività». 
Poi la steccata di Stosur. 
«Eh, qualche angioletto in quel momento è passato...». 
Sono rimasti nel suo cielo, poi, quegli angioletti. 
«A questo punto posso dire di credere nel destino: lo disegniamo noi. Poi ci sono forze più grandi che ci aprono le strade. Linfoma, è la diagnosi. Ti chiedi perché, perché proprio io? Io che non ho mai bevuto né fumato...». 
Il tennis, con il suo stress e i suoi angoli acuti, potrebbe aver avuto un ruolo? 
«No, non credo». 
La risposta a tutte quelle domande? 
«È giusto così. Ciascuno di noi ha il suo cammino». 
Come si cambia in dieci anni, attraverso il prisma della malattia? 
«Di base, sono scema come allora (ride). Però comunico di più, mi sono aperta. Prima filtravo, mi proteggevo. Oggi ho un senso dell’esistenza diverso: la malattia mi ha regalato la pazienza». 
Le giornate a 40 anni 
Il bistrot sui Navigli e il tennis con Mila. Coach di un uomo? Bella sfida 
Rifarebbe tutto? 
«Sì, tutto, e anche di più. Investirei subito su di me: un coach, un preparatore, un viaggio negli Usa senza aspettare. Ma trentacinque anni fa non potevo, non avevo soldi». 
La follia più grande? 
«Avere tre giorni, prendere un aereo dalla California, dare un bacio d’amore e tornare in California». 
Bello. Follia apprezzata? 
«Moltissimo!». 
Oggi è innamorata? 
«Sì, felicemente». 

Di cosa sono fatte le giornate, a quarant’anni? 
«Di mensole da montare, viaggi avanti e indietro dal Brico, trapano e martello. Questo bistrot-bottega me lo sono costruito io insieme a Silene, che con lo chef Evasio mi aiuta a scegliere i prodotti. A furia di assaggiare mi sta venendo la pancia. Siamo ancora piccolini, ci frenano le regole di distanziamento imposte dalla pandemia, ma stiamo diventando un punto di riferimento sui Navigli». 
E il tennis, il suo tennis, che fine ha fatto? 
«Dell’idea di allenare se ne riparlerà nel 2021: ancora non posso prendere aerei, devo essere prudente. Ma ogni tanto vado in campo a Buccinasco con Mila, la ragazzina che ha vinto la mia borsa di studio. Sono ancora bravina!». 
Diventare coach di Fognini è un gioco o un progetto? 
«Flavia mi dice: parli a Fabio con un cervello da maschio. A parte che Barazzutti è eterno, allenare un uomo sarebbe una gran bella sfida». 
Dov’è la coppa di Parigi? 
«A casa dei miei, dove sono cresciuta. È in una vetrinetta antica: ogni volta che vado, le do una spolveratina». 
Tra mille anni come vorrebbe essere ricordata nel suo mondo, Francesca? 
«Leonessa, basta così».