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 2020  giugno 02 Martedì calendario

Tutti gli ostacoli per i fondi Ue

In Italia siamo già passati a parlare d’altro, come se fosse ormai tutto scontato. L’abbiamo fatto prima di capire cosa esattamente c’era scritto nelle centinaia di pagine di norme del Recovery Plan della Commissione Ue. Ma è solo leggendo i piè di pagina che saltano fuori le vere sorprese. Finanziarie e politiche. 
Perché dire che il diavolo è nei dettagli è solo una metafora. Nei dettagli, piuttosto, c’è la realtà. La si trova spesso in quelle note in piccolo negli annessi ai testi di legge, come la proposta di regolamento varata dalla Commissione europea mercoledì scorso per una «Recovery and Resilience Facility». Quel pacchetto rappresenta il grosso del piano di rilancio da 750 miliardi dell’Unione europea, sul quale si è alzato il velo la settimana scorsa. Andate dunque in fondo a quel testo, alla parte sull’impatto finanziario «stimato», perché vi troverete quel che appare l’opposto di ciò che servirebbe. Servirebbe una reazione con forza rapida e schiacciante, dopo un crollo improvviso del reddito in Europa che quest’anno sarà di quasi il dieci per cento. In questi casi il primo obiettivo dei poteri pubblici di solito è la prevenzione di quella che gli economisti chiamano «isteresi» – il fallimento delle imprese, la perdita di posti, il necrotizzarsi del tessuto produttivo – perché poi rianimare un’economia diventerebbe più difficile, lento e costoso. Dunque, in teoria, l’intervento finanziario dovrebbe essere concentrato: il più possibile, il prima possibile.
Nel caso della «Recovery and Resilience Facility», un fondo da seicento miliardi, è vero l’opposto. Da lì non arriverà niente quest’anno, nel pieno della recessione, perché mancano i tempi tecnici e politici. Nel 2021 gli esborsi previsti dalla proposta di regolamento valgono solo il 5,9% dell’intero pacchetto, quindi i pagamenti salgono al 15,8% nel 2022, mentre quasi metà dei seicento miliardi verrebbe erogata solo nel 2023 e nel 2024 (con una coda fino al 2026). 
Nel caso dell’Italia è possibile stimare che l’anno prossimo i trasferimenti diretti di bilancio (quelli impropriamente definiti a fondo perduto) non varranno più di quattro miliardi di euro, mentre sotto forma di prestiti ne dovrebbero arrivare altri otto. In tutto, secondo le stime «indicative» della proposta di regolamento, la Recovery and Resilience Facility dovrebbe versare all’Italia somme pari allo 0,7% del reddito nazionale nel 2021 dopo un crollo economico fra il 10% e il 13% quest’anno. Il rischio che gli aiuti arrivino troppo tardi per tenere in vita alcune delle imprese in difficoltà è reale. In seguito inizierebbe poi una progressione: versamenti all’Italia per l’1,5% del reddito nel 2022 (metà prestiti, metà trasferimenti di bilancio), per l’1,7% in ciascuno dei due anni seguenti e per l’uno per cento nel 2025. È vero che questo è il grosso degli interventi, non tutto. Già per quest’anno dovrebbero essere disponibili sette miliardi quasi tutti realmente a fondo perduto, più quindici di prestiti del fondo Sure di sostegno ai lavoratori e (potenzialmente) i 37 miliardi nella nuova linea di credito sanitaria del Meccanismo europeo di stabilità. Se vuole, l’Italia avrebbe a disposizione nei prossimi mesi una cinquantina di miliardi di sostegno di bilancio dall’Europa per contribuire a compensare una distruzione di reddito di quasi quattro volte più grande. Resta da capire perché il vero bazooka di Bruxelles, la «Recovery and Resiliency Facility», prometta di sparare i suoi colpi così tardi. La risposta è agli articoli 17.4(a) e 19.3 del suo regolamento. Vi si legge che la Commissione concede gli esborsi solo quando i Paesi avranno presentato dei pieni dettagliati su come investire quei fondi e preso misure per mettersi in grado di spendere con efficacia. In altri termini, la Commissione tiene il coltello dalla parte del manico. Non promette di erogare tutto (o molto) subito, per non perdere un controllo su come il denaro viene speso e per poter incalzare i governi a affrontare le riforme necessarie al piano di investimenti. Ma oggi i tempi degli esborsi sono definiti indicativi. Significa che prima l’Italia riuscirà a presentare piani dettagliati, credibili e operativi sulla transizione ecologica o sul digitale, prima otterrà i fondi del Recovery Plan: presentare a Bruxelles un piano solido a luglio, può accelerare gli esborsi da gennaio; attendere l’autunno e mandare progetti vaghi può far slittare i versamenti fra un anno.
La credibilità dei progetti servirà anche per un motivo più politico: l’intero pacchetto deve superare la ratifica dei parlamenti nazionali, perché modifica le fonti di ricavi fiscali della Commissione stessa. Significa che in estate o in autunno dovranno votare a favore i parlamenti nazionali di Olanda e Danimarca (dove due governi già ostili al progetto non controllano neppure la maggioranza dei seggi) e parlamenti regionali come quello di impronta fortemente sciovinista delle Fiandre, in Belgio. Per l’Italia il modo migliore per farli votare contro, è mostrare al resto d’Europa che il governo pensa di aver vinto un «jackpot». Non di dover preparare un piano efficace.