Il Sole 24 Ore, 2 giugno 2020
Serve una nuova Autostrada del Sole
C’è in giro nel Paese, a livello politico e anche nel dibattito sui media, una preoccupante aria/voglia di statalismo, assistenzialismo, populismo, mescolati assieme. L’Italia appare nella rappresentazione prevalente come un insieme di piccole aziende e piccoli operatori travolti dall’emergenza del Covid-19 e dal nuovo regime di distanziamento sociale: una nazione di minuscoli soggetti bisognosi di aiuti a pioggia e di aziende fragili che rischiano di essere spazzate via.
Nessuno nega che tanti imprenditori, non solo piccoli, ma anche medi e grandi, incontreranno per molti mesi difficoltà enormi, soprattutto nel settore dei servizi, in particolare nei piccoli negozi e nella filiera bar-ristorazione-alberghi, a seguito della grave crisi del turismo e dei trasporti. E certamente forme di sostegno temporanee e di erogazione di liquidità in emergenza sono essenziali per contenere la chiusura di aziende e la perdita posti di lavoro.
Ma questa non è la rappresentazione reale dell’Italia e la nostra ripartenza non potrà essere soltanto assistenza (o troppa assistenza). Serve innanzitutto conoscere come è fatta davvero la nostra economia: per progettare la ripresa, per avere una strategia chiara in mente e per sapere come e dove spendere i denari che l’Europa ci permetterà di spendere. E servono poi più industria, nuove infrastrutture, scatti coraggiosi di innovazione (anche e soprattutto nella pubblica amministrazione) e meno tasse per rilanciare investimenti e consumi. Abbiamo un colpo solo in canna: è bene esserne coscienti. Perché il nostro debito pubblico è altissimo e non ci sarà più un’altra occasione (giustificata) per investire in deficit e usare fondi europei a buon mercato per fare uscire l’Italia dalla crisi e riformarla una volta per tutte.
I micro imprenditori sono indubbiamente importanti, sono il tessuto sociale di molte aree del Paese e sono il kindergarten da cui nascono imprese più grandi. Quindi, lo ripetiamo, è giusto dare loro supporto e finanziamenti in questo momento particolare di difficoltà.
Ma i micro imprenditori non sono l’Italia che in questi ultimi anni ha trainato la nostra economia fuori dalla crisi del 2009-2013, che ha investito ed esportato, generando un moltiplicatore formidabile su tutti gli altri settori. L’Italia su cui concentrare la strategia della ripartenza è un’altra, sono le 44mila imprese industriali esportatrici. Proviamo a descriverla.
Se confrontiamo le ultime statistiche sull’export delle imprese industriali europee, scopriamo che nel 2017 l’industria italiana ha esportato 350 miliardi di euro con 89.611 imprese esportatrici. Troppe imprese, si sente dire spesso superficialmente, e soprattutto troppo piccole. Ma, di tutte queste imprese esportatrici, le 45.561 con meno di 10 addetti hanno esportato solo 8 miliardi. Dunque, l’export del made in Italy non si fonda sui micro imprenditori, ma sulle 44.050 imprese industriali attive all’esportazione con 10 o più addetti.
D’altro canto, è noto che l’Italia, per varie cause e involuzioni storiche non più recuperabili, non può contare oggi che su un ridotto numero di grandi imprese industriali e inoltre di dimensioni non paragonabili a quelle degli altri Paesi europei. Prova ne è che le grandi imprese industriali tedesche con 250 o più addetti nel 2017 hanno esportato 754 miliardi di euro (pari all’86% dell’export totale delle imprese tedesche con 10 e più addetti) e le grandi imprese industriali francesi 270 miliardi (pari all’87% dell’export totale delle imprese francesi con 10 e più addetti). Le grandi imprese italiane figuravano solo terze, con un export comunque importante di 180 miliardi (appena il 53% delle nostre esportazioni industriali totali).
Tuttavia, se andiamo oltre il vittimismo martellante secondo cui non abbiamo grandi gruppi e se consideriamo il resto del nostro sistema esportativo, esso appare tutt’altro che nano. Le nostre medie imprese esportatrici (50-249 addetti) e quelle piccole escluse le micro (10-49 addetti) risultano entrambe prime in Europa nella loro categoria per export totale e anche per export medio per azienda. Le medie e le piccole imprese industriali italiane esportano insieme oltre 161 miliardi, cioè quanto l’intera industria spagnola. Va poi considerato che, secondo l’Istat, altri 51,5 miliardi del nostro export industriale provengono da imprese grandi, ma non grandissime, appartenenti alla classe 250-499 addetti. Dunque, scorporando queste imprese dalle grandi con oltre 500 addetti, il sistema industriale italiano che va dalle piccole imprese con 10-49 addetti alle medio-grandi con 250-499 addetti può vantare un export complessivo di 213 miliardi di euro, superiore a quello dell’intera industria britannica. E ci restano ancora da mettere sul piatto i 129 miliardi di export delle nostre imprese industriali più grandi con 500 addetti e oltre.
Risultato: l’export totale delle imprese industriali italiane escluse le microimprese con meno di 10 addetti è di 342 miliardi, generato per 2/3 da imprese piccole, medie e medio-grandi e per il rimanente dalle poche imprese grandi di cui ancora disponiamo. Quello italiano è il secondo export industriale d’Europa dopo quello tedesco e ci permette di stare tra i primi cinque Paesi al mondo per migliore bilancia commerciale manifatturiera, con un surplus con l’estero stabilmente oltre i 100 miliardi di dollari. Grazie al piano Industria 4.0 il nostro sistema produttivo è cresciuto negli ultimi anni più di quello della Germania e ha innalzato enormemente la sua produttività, diversificandosi anche in settori nuovi come la farmaceutica, in cui l’anno scorso l’Italia ha fatto registrare la più forte crescita sia percentuale (+26,3%) sia assoluta (+5,1 miliardi di dollari) tra i primi 15 esportatori mondiali.
Una politica per la ripartenza, dunque, deve fondarsi innanzitutto sulla consapevolezza di ciò siamo e sulla considerazione che solo una crescita vigorosa e non uno spreco di risorse a fini assistenziali ci porterà fuori dalla crisi. La crescita sarà tanto più forte tanto più l’industria sarà messa in condizioni di competere al meglio. Serve un piano di infrastrutturazione per far correre di più il Paese e la sua economia, che assieme alla manifattura si fonda inoltre su agricoltura, turismo e terziario avanzato, spesso interconnessi.
Negli anni 50 l’Autostrada del Sole ha fatto correre le auto lungo la penisola ed è stata un simbolo del boom economico. Oggi servono infrastrutture moderne che facciano correre i dati, le idee, i passeggeri e le merci. Fibra ottica, alta velocità e alta capacità, risparmio energetico ed energie verdi, lotta al dissesto idrogeologico, edilizia antisismica e scolastica, ricerca, innovazione, piattaforme tecnologiche, scuole tecniche e più matematica, ingegneria e medicina nell’istruzione dei giovani: devono essere questi i driver della ripartenza, non l’assistenzialismo. Assieme a una riforma non più rinviabile della pubblica amministrazione e una sua completa digitalizzazione, da Nord a Sud del Paese.