Affari&Finanza, 1 giugno 2020
Intervista all’economista Dambisa Moyo
"Fino a pochissime settimane fa ero convinta che gli Stati Uniti sarebbero stati in grado di avviare la ripresa già in estate, il famoso andamento a "V" della recessione: ora non più perché la crisi che si sta delineando è addirittura peggiore di quel che sembrava". Dambisa Moyo, economista con master ad Harvard e PhD a Oxford, lunghe esperienze in Banca Mondiale e Goldman Sachs, oggi nel board di gruppi come Chevron e 3M, si professa "per natura ottimista". Però non può che essere scoraggiata per la ricaduta economica della pandemia: "La disoccupazione sta rapidamente arrivando al 25%, gli stessi livelli della Grande Depressione del ’29. Ci vollero dieci anni allora per recuperare, è vero che adesso la risposta è più massiccia e organizzata però i tempi tecnici si allungheranno inevitabilmente".
Malgrado la Fed abbia assicurato interventi che porteranno, secondo le stime, il suo budget a superare i 10 trilioni dai 2,5 della fine dell’anno scorso, e il Congresso stia per varare il raddoppio a 6 trilioni delle misure di stimolo?
"Intanto su questo raddoppio, contenuto in un provvedimento proposto dai democratici e in attesa di discussione al Senato a maggioranza repubblicana, non ci sono ancora certezze. E poi sono fondi che serviranno per stabilizzare la situazione, lo stimolo allo sviluppo sarà un’altra cosa. La stessa banca centrale sta avventurandosi su territori sconosciuti come l’helicopter money con tutte le incertezze del caso. Il secondo trimestre si chiuderà con una perdita abissale, c’è chi parla del 40% del Pil, anche se per la verità secondo me non si arriverà così in basso. Si scommette su una ripresa già dal terzo trimestre, e il Fondo Monetario parla di un -5,9% di perdita media annua. Secondo me non andrà così: per la ripresa bisognerà aspettare l’anno prossimo, e neanche i primi mesi. Poi il processo continuerà con lentezza. Più o meno altrettanto vale per l’Europa".
Però, restando in America, il lockdown è finito in tempi più brevi del previsto, anche a furor di popolo malgrado il conteggio dei morti intanto abbia infranto l’agghiacciante quota 100mila...
"L’unica grande città "chiusa" era rimasta New York, che sta ora tentando timidamente di ripartire. Ha appena riaperto a ranghi ridotti lo Stock Exchange (martedì scorso, ndr), si stanno sanificando i grattacieli per uffici che secondo gli scienziati sono stati insieme alla metropolitana i veri ricettacoli del virus. Ma la sensazione è che la popolazione abbia paura, come si può comprendere visti i terribili numeri delle vittime, e si faticherà a spingerla a uscire di casa per riprendere la vita normale a partire dai consumi che sono l’essenza dell’economia americana (il 65-70% secondo le stime, ndr)".
La pandemia ha dato il colpo di grazia alla globalizzazione?
"Non ne sarei sicura. Piuttosto l’aspetto più grave è che ha acuito in modo irreparabile le disuguaglianze, sia il divario fra Paesi sviluppati ed emergenti che sta paurosamente allargandosi in questi mesi di crisi, sia all’interno delle società occidentali. Stando a calcoli affidabili, l’economia di un Paese in via di sviluppo dovrebbe crescere come minimo del 3%, ma meglio se una quota molto più alta fino al 7%, per permettere di raddoppiare in una generazione (25 anni) il reddito pro capite. Invece già prima della pandemia erano pochissimi i Paesi che riuscivano a conseguire questo tasso di crescita - il Brasile nel 2019 è cresciuto dell’1,1%, la Russia dell’1,3% - e ora le previsioni del Fondo Monetario sono tutte disastrosamente per tassi negativi. Non è finita: anche all’interno delle società più opulente la recessione che seguirà all’emergenza sanitaria aggraverà una situazione già insostenibile. Ormai è obsoleto perfino il calcolo annuale dell’Oxfam, la confederazione internazionale di organizzazioni non profit che si dedicano alla riduzione della povertà globale (il report 2020 è uscito in gennaio, ndr) secondo cui il reddito medio dell’1% degli americani più ricchi è quattordici volte superiore al reddito medio del resto della popolazione, oppure la stima di Forbes che i 400 cittadini Usa più ricchi possiedono più ricchezza di quella controllata dal 61% del Paese ovvero 194 milioni di persone. E storie analoghe valgono per l’Europa. L’acuirsi della disparità fra i redditi ha effetti nefasti. Non solo sociali: l’Ocse calcola che le disuguaglianze siano costate ai Paesi occidentali l’8,5% del Pil combinato negli ultimi 25 anni".
Ci spiega meglio perché questo accade?
"Il fatto che molti soggetti in seno alla società non siano in grado di sfuggire alle difficoltà economiche e alla povertà, quanto per loro sia influente e pesante il calo del livello di istruzione, insomma che si sentano abbandonati e isolati dai "ricchi" che invece sembrano progredire economicamente perfino in tempi difficili, porta alla disaffezione, alla scarsa partecipazione, alla perdita di fiducia nella leadership e in sostanza all’instabilità sociale e politica. Tutti questi aspetti legati all’aggravarsi delle disparità tra i redditi, ostacolano e rallentano la crescita, oltre a costituire una mina sociale di pericolosità inimmaginabile. L’America è in testa alle preoccupazioni: l’indice Gini della World Bank che misura le disuguaglianze (da 1 a 100 dove più alto è il valore più forti sono le disparità) era nel 2019 sul livello di 41,5, più vicino al 49,7 della Colombia che al 27,5 della Norvegia (Italia 35,4, ndr)".
Ma perché, tecnicamente, la pandemia ha aggravato la situazione?
"Punto chiave è la crescita, prerequisito tra l’altro per la democrazia (e non il contrario). Non è un problema solo di Pil: in Europa la crescita è bassa e non a caso crescono nazionalismi e populismi, ma anche in America una crescita apparentemente robusta ha celato al suo interno delle disparità intollerabili. Del resto sono quasi mille anni che si cerca un metodo più affidabile per calcolare la ricchezza delle nazioni, da quando nel 1085 William the Conqueror, re d’Inghilterra, commissionò il Domesday Book per stimare il valore di suoi domini. Già allora suscitarono perplessità i criteri quantitativi usati dagli emissari di Guglielmo. Da quel tempo antico i governi, per quanto consapevoli, non riescono a trovare un argine: nessun rimedio, da quello monetarista americano della cosiddetta trickle-down economy (consentendo più ricchezza ai ricchi ne deriveranno benefici a cascata per tutti) a quello del capitalismo di Stato cinese - la Cina ha una classificazione analoga a quella americana - sembra funzionare contro le disuguaglianze. La verità è che servirebbero programmi a lunga scadenza, ma nessun governo ha la certezza di durare così a lungo per poterli implementare con continuità, neanche Xi Jinping".
Si chiama democrazia dell’alternanza...
"Però le elezioni sono troppo ravvicinate: che senso ha votare ogni due anni, considerando il mid-term, in America? Il risultato è lo "short-termismo" analogo a quello delle aziende quotate che hanno premura di chiudere i conti ogni tre mesi".
A proposito, il disastro economico guasta i piani di Trump?
"Mi sembra debole la concorrenza democratica. Vede, Hillary Clinton fu sconfitta non dove si concentra la ricchezza del Paese (Silicon Valley, Wall Street, Hollywood) ma dove i lavoratori vedevano un progetto: America First, meno tasse, argine alla concorrenza cinese e all’immigrazione incontrollata. Trump aveva almeno un programma, di Hillary non si ricorda uno slogan. Temo che si stia facendo lo stesso errore".
Lei vive da molti anni fra l’America e la Gran Bretagna ma è nata in Zambia e conserva giustamente un forte legame con il suo Paese d’origine. L’Africa a questo punto è in cima alle preoccupazioni della comunità scientifica per un possibile allargamento della pandemia. E’ inevitabile chiederle una parola per la situazione nel continente.
"E’ stato calcolato, riferisce l’Organizzazione Mondiale per la Sanità, che per porre un argine a questa tragedia in divenire servirebbe una spesa di 35-40 dollari per ogni cittadino africano. Nessun governo del continente se la può permettere. Servirebbe un vero piano Marshall da parte dell’occidente, che avrebbe anche un senso geopolitico perché sottrarrebbe l’Africa al destino di diventare una colonia cinese. Gli aiuti e gli investimenti di Pechino comparati con quelli americani sono venti volte di più, quelli europei poi sono quasi inesistenti. Non sto parlando di aiuti a pioggia indefiniti ma di un programma mirato di interventi concentrato nel tempo (il piano Marshall durò 4 anni) che coinvolga le comunità locali. L’Africa è stata lasciata ai margini dello sviluppo (2-3% del commercio mondiale, una quota trascurabile del Pil) e il risultato è la scomposta emigrazione di massa che destabilizza l’Europa e il mondo intero".