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 2020  giugno 01 Lunedì calendario

Il lungo derby tra Intesa e Unicredit

L’offerta da 4,86 miliardi annunciata da Intesa Sanpaolo per aggregare Ubi Banca, prima di rimescolare la geografia del credito nazionale, rinfocola la storica rivalità tra il primo istituto italiano e l’inseguitore Unicredit. Rivalità non sopita nei tre mesi di sconvolgimenti pandemici che hanno seguito il blitz del 17 febbraio. Lo conferma la notizia che il 22 maggio, ultimo giorno utile per farlo, la prima (e forse, unica) “banca paneuropea” guidata dal francese Jean Pierre Mustier abbia chiesto di intervenire nel procedimento aperto l’11 maggio dall’Antitrust sull’operazione, come spetta ai soggetti cui «possa derivare un pregiudizio diretto, immediato e attuale» dall’eventuale consolidamento. Unicredit è in compagnia di Cattolica Assicurazioni, Banca Popolare dell’Emilia Romagna (Bper), Fondazione del Monte di Lombardia.

"Garbata azione di disturbo"
Né è un fatto inedito che, nei frequenti procedimenti che il garante apre per valutare gli effetti delle fusioni sulla concorrenza, una delle due residue ex “Banche di interesse nazionale” (appellativo dirigista che dal 1936 attribuiva l’attività del credito “ordinario” di breve e medio termine a Comit, Credit e Banco di Roma) si sia insinuata nelle istruttorie della rivale per presentare memorie, deduzioni, accedere ad atti e audizioni. Gli esperti la chiamano “garbata azione di disturbo”, con cui mandare un segnale ai concorrenti e al contesto.
Proprio il contesto, come l’ha fotografato l’Authority presieduta da Roberto Rustichelli nel documento iniziale, illustra e in qualche modo giustifica la fatale riproposizione del derby Intesa-Unicredit: che fu Comit-Credit, prima che la prima si comprasse Cariplo e Sanpaolo tra l’altro, e la seconda inglobasse Capitalia (l’ex Banco di Roma) oltre a una ventina di banche in tutta Europa. Secondo l’Antitrust, se Intesa portasse a termine l’aggregazione con la quarta banca italiana si profilerebbe «la creazione o il rafforzamento di una posizione dominante in alcuni mercati provinciali della raccolta, degli impieghi alle famiglie consumatrici e produttrici-piccole imprese, alle imprese medio-grandi e agli enti pubblici, nel risparmio amministrato e gestito nonché nei mercati assicurativi». Oltre ai vari sforamenti elencati – su base provinciale o per filiere verticali – delle soglie antitrust dei singoli business, poste al 25-30% delle quote di mercato, si paventano due istanze sistemiche: «Da un lato, il mercato verrebbe privato della presenza di un operatore di medie dimensioni quale Ubi, che in un futuro non remoto avrebbe potuto fungere da polo di aggregazione, costituendo un terzo gruppo bancario di grandi dimensioni che si sarebbe affiancato alle due banche maggiori. D’altro canto, la sostanziale simmetria fra i primi due gruppi verrebbe superata, per l’importante crescita di Intesa».

Il risiko degli sportelli
Pertanto, è probabile che entro fine luglio l’Antitrust imponga misure riparatrici alla banca guidata da Carlo Messina, da più addetti ai lavori stimate eccedere gli impegni preliminari offerti: il contratto siglato con Bper per cederle da 400 a 500 sportelli con attivi e passivi, quello in fieri per cedere a UnipolSai (assicuratore controllato da Ugf, pure primo azionista di Bper) le correlate attività bancassicurative. Se così sarà – come già nell’iter autorizzativo della fusione tra Intesa e Sanpaolo – il compratore dovrà cedere ulteriori attività e magari coinvolgere tutti i potenziali interessati tramite un meccanismo d’asta (non solo la triade Bper-Unipol-Mediobanca, alleata sul dossier e anche perciò data dai più come favorita per una futura aggregazione nell’agone creditizio).

Due strategie opposte
Ma davvero è in ballo, se l’Ops sui 1.600 sportelli di Ubi riesce, “la sostanziale simmetria” tra le due ex Bin e nel mercato? Per capire la forza che ha oggi Intesa Sanpaolo nel Paese, vanno ricordate le opposte strategie perseguite dalle due storiche rivali negli ultimi 15 anni di concentrazioni. Nel 2005 Intesa e l’allora Unicredito italiano erano gruppi solidi con sede e radici nel ricco Nord, chiamati da uno scenario frenetico al salto dimensionale. La banca guidata da Corrado Passera, più prudente e meno esterofila, andò sul sicuro convincendo, anche per l’orchestrazione di Giovanni Bazoli delle Fondazioni azioniste, i torinesi del Sanpaolo – miglior banca italiana dell’epoca – a una fusione tra pari. Di lì la china di banca “per il Paese”, la voce forte nei grandi dossier creditizi, la successiva acquisizione di Carifirenze e quella – da compratore marginale, di ultima istanza – delle due ex Popolari venete in dissesto. Tutto nella forte impronta sociale alle stesse Fondazioni ispirata: ma di recente sposata dal colosso dei fondi Usa Blackrock, che sta puntando sempre più sulla banca di cui ha un 5% (e pare sia tra gli sponsor dello scacco a Ubi).
Questa strategia, che ha contemperato l’attività di credito – non sempre munifica date le tre recessioni del decennio italiano – con le miniere di redditività attinte ai 1.000 miliardi di euro di risparmi privati e con l’ascesa che insidia ormai Generali nel mercato assicurativo, ha garantito utili regolari e per miliardi (4,18 l’anno scorso). E la redditività è stata condivisa con gli azionisti con percentuali più alte della media di settore (il 75% degli utili attualmente, salvo che la Bce tolga il veto comune posto per il Covid). È la ricetta con cui anche il Financial Times, giorni fa, spiegava la tenuta dell’azione, che malgrado le perdite 2020 capitalizza circa 27 miliardi, quasi metà del suo patrimonio netto, su multipli circa doppi rispetto a Unicredit e altre rivali come Barclays, Santander, Bnp Paribas. “La banca più apprezzata d’Europa”, ha titolato il quotidiano britannico, notando «quasi con uno choc» che la palma della resistenza agli urti pandemici va al monolite bancario del Paese più colpito dal virus.

Le scelte di Unicredit
Tutt’altre scelte, tutt’altri esiti per Unicredit. Il gruppo, sotto la guida di Alessandro Profumo, ebbe negli stessi anni la visione pioniera di creare una banca presente in tutti i Paesi d’Europa. E seppe realizzarla, con una campagna acquisti inebriante. Salvo scoprire, dopo il crac di Lehman Brothers, che la crisi chiudeva il mercato interbancario, e i rischi finanziari e geopolitici in molti Paesi (Ucraina e Polonia, tra i tanti) erano stati sottovalutati. In più, per tener testa a Intesa nell’agone nazionale, Unicredit s’era comprata Capitalia: un boccone che, ex post, ha portato in dote sofferenze creditizie e guai reputazionali nei “salotti buoni”. La cura finale l’ha somministrata il francese Mustier, che quattro anni fa ha imbracciato il timone e ricapitalizzato per 13 miliardi per venderne 17 di crediti in mora. E così facendo ha polverizzato gli azionisti italiani a favore dei fondi esteri. Da allora Unicredit è una public company dove l’inglese è la lingua più parlata: e mantiene l’impianto di “banca paneuropea”, vocato nelle aree ad alta crescita ma non prive di rischi (gli ultimi, con relative svalutazioni multimilionarie, contabilizzati per deconsolidare la controllata turca Yapi).

La campagna dismissioni
Mustier, anzi, non fa nulla per provare a “rimpatriare” Unicredit, di cui l’Italia è una provincia: nell’ampia teoria di dismissioni non sono mancate rilevanti pedine nostrane. Dai fondi Pioneer al gioiello Fineco, alla recente uscita da Mediobanca, dove Unicredit era il primo pilastro. Come cornice, un dimagrimento sistematico di molti attivi italiani: con centinaia di sportelli chiusi (e circa 10 mila dipendenti fuoriusciti) e l’erosione dei prestiti, dove ormai Unicredit ha una quota di attorno al 10%, circa metà della rivale. La decrescita italiana non pare reversibile: si vedano i ripetuti dinieghi di Mustier a imbarcarsi in qualsivoglia acquisizione domestica: mentre resta agli atti qualche tentazione, condita da timide mosse negoziali, con la francese SocGen o la tedesca Commerzbank (anche se ormai da un anno Mustier ripete che «non è il momento per le fusioni»).
L’Antitrust probabilmente scoprirà, a fine istruttoria, che la “sostanziale simmetria” tra le due rivali, che Passera & Profumo ai tempi definivano i due ministeri finanziari ombra d’Italia, è rotta da anni. E che i banchieri di seconda fascia, manager di Banco Bpm, Ubi, Mps, Sondrio, Bper e poche altre cui fa capo l’80% del mercato, non hanno avuto abbastanza coraggio, fiducia o mezzi per costruire alternative serie.