il Fatto Quotidiano, 1 giugno 2020
Intervista a Enrico Letta tra Milan e politica
“Ci vuole un fisico bestiale sia per fare politica che per giocare al calcio”.
Gambe forti e bocca volitiva. Un politico vegetariano in Italia non diverrà mai leader. Vero che col calcio si acquistano punti.
Mangiavo di tutto. Ero in Valtellina? Pizzoccheri. Ero a Bisceglie? Orecchiette con le rape. La relazione con il cibo è essenziale, costituente. E poi bisogna dannarsi a viaggiare, incontrare, ascoltare: un politico che non regge la fatica, la piazza, non ha idea di cosa sia il popolo, quindi non ha futuro.
Quando il Milan era in auge anche Enrico Letta era al top. Poi sono iniziati i guai. Simul stabunt, simul cadent.
Certo non sono più i tempi di Maldini o di Van Basten.
Era tranquillo e custodito in Parlamento. Da tifoso del Milan senza altri incarichi usa un vocabolario salviniano. Irriconoscibile.
Lui strumentalizza, la butta in politica, sta sempre tra il pallone e il palco. Io invece sono un tifoso vero, le parolone le uso perché la passione gonfia il sentimento che poi rotola esattamente come la palla in campo.
Piatek fa vergogna, Kalinic è una disgrazia, la Juve ladra.
È permesso sfottere, intignare, polemizzare e anche sfregiare (a parole). Altrimenti che tifoso sei?
Non amo l’uomo forte, però faccio un’eccezione.
Ho detto questo?
Lei così compassato, un vero cattolico democratico.
Ora ricordo, era riferito a Ibra. Un grande, un leader in campo.
È rotto, è anziano.
Il tendine di Achille sta bene, qualche superficiale problemino al polpaccio. Sarà più forte di prima.
Il calcio la rende così esuberante che allaga Twitter con le sue apologie.
Da tre mesi a questa parte sto usando molto Twitter ma per un motivo diverso: temo che questa pandemia possa produrre una crisi finale con l’Europa. È un rischio serio, quindi ho deciso di impegnarmi al massimo.
I suoi compagni sono pensierosi.
Infatti immagino che qualcuno si chieda se io voglia rientrare in politica, quali obiettivi abbia. Non me ne curo, la battaglia per difendere l’Europa è più importante, e quindi insisterò. So che ci saranno mesi difficili, che la rabbia in corpo potrà aprire spazi importanti ai sovranisti. So che sarebbe un suicidio, ma la storia della Brexit ci dice che ti può capitare di fare la più grande fesseria senza neanche un perché.
Sarà martello. Un po’ di Milan e tanto Orbàn.
I social espongono tanto, costringono a un presenzialismo innaturale, esercitano pressioni psicologiche pazzesche.
Il povero Salvini ha appena dovuto esibirsi in playback su Tik Tok. Ha mimato un brano di Cocciante mentre era sul tapis roulant.
Vede dove si arriva? Guida l’idea che devi essere anzitutto un personaggio. Che le idee non siano necessarie. Dico sempre che oggi essere leader è molto più difficile di quarant’anni fa.
C’erano una volta i veri leader.
Falso. Non so se quelli che veneriamo come i santoni della politica oggi ce l’avrebbero fatta.
Oggi sono migliori?
Oggi devono subìre prove inimmaginabili. Certo, il rischio vero è che anziché guidare, aprire un varco, un orizzonte, si diventi follower dei propri followers. Che per puntare a costruire il personaggio si lasci per strada la trebisonda. Per quel che mi riguarda, mi sforzo di mettere avanti a me un’idea e non di seguire il coro.
In Italia tre i premier milanisti. Il suo leader (diciamo così) Berlusconi, poi Monti e quindi lei. Oggi siete i tre poverelli di Assisi.
Al tempo del passaggio di consegne a Palazzo Chigi tra Berlusconi e Prodi io ero sottosegretario di quest’ultimo e mio zio Gianni del Cavaliere. Che non aveva proprio voglia di scambiare parola con Romano Prodi e allora si diresse da me, mentre il neopresidente raccoglieva il testimone da Gianni Letta. Sa di cosa discutemmo? Mi chiese come valutassi la cessione di Shevchenko. Tutto il tempo a parlare del Milan.
Lei ha un futuro in curva a San Siro.
Non dubiti.