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 2020  maggio 31 Domenica calendario

Biografia di Ivan Illich

Di recente è uscito per Neri Pozza il primo volume delle opere complete di Ivan Illich, conosciuto al pubblico italiano per i suoi saggi sulla convivialità, l’elogio della bicicletta, la disoccupazione creativa. Con questo volume viene inaugurata la prima edizione mondiale di tutti i suoi scritti, un progetto di cui si deve essere grati agli editori e ai curatori. Gli scritti raccolti, in parte inediti, che vanno dal 1951 al 1971, coincidono con gli anni della formazione, l’impegno pastorale, prima a New York e poi a Portorico, la partecipazione al Concilio Vaticano II e la fondazione a Cuernavaca, in Messico, del Centro intercultural de documentación. È il tempo della sua opera dentro la Chiesa, ma anche quello successivo al 15 marzo 1969, la data in cui depone «i privilegi e i poteri che gli sono stati conferiti dalla Chiesa» dichiarando di rinunciare all’esercizio pubblico del sacerdozio.
Ha inizio così l’attività di scrittore e conferenziere, grazie a cui diventerà una delle figure di spicco della cultura negli anni Settanta. La sua prospettiva radicale si accorda con un’epoca che critica ogni istituzione. Ma come non si può relegarne l’opera al periodo della prima clamorosa ricezione, così occorre riconoscere una continuità in tutta la sua riflessione, prima e dopo l’uscita dalla Chiesa. Il che rende ancor più prezioso questo volume che offre al lettore un percorso affascinante per riscoprire una personalità d’eccezione, un maestro del Novecento, di cui è forse giunta l’ora della leggibilità. Non c’è dubbio infatti che, dopo le catastrofi che hanno già segnato il XXI secolo, questo radicale critico della modernità, questo singolare archeologo della convivialità abbia molto da dirci.
Ma chi era Ivan Illich? «Per definirlo non è facile trovare i termini appropriati», così scrive Erich Fromm in una nota introduttiva al saggio del 1970 che dà il titolo a questo volume Celebrare la consapevolezza . Appello a rivoluzionare le istituzioni. Poi propone la formula «radicalismo umanistico» per indicare la capacità di mettere in dubbio tutto ciò che sarebbe altrimenti accettato come un’ovvietà, senza timore di giungere a idee che potrebbero apparire assurde. E presentando Illich come «un uomo di raro coraggio, grande carica vitale, di cultura e intelligenza straordinarie, di fertile immaginativa», sottolinea l’effetto liberante e lo shock creativo trasmesso dai suoi scritti.
La biografia di Illich, segnata dalle tragedie e dai trionfi del Novecento, si lega strettamente alla sua opera. Non aveva mai dimenticato un episodio dell’adolescenza che tornò a raccontare in pubblico anche prima di morire nel 2002. Era la primavera del 1938 e lui undicenne sedeva tra i suoi compagni di classe in un rinomato ginnasio viennese. L’insegnante di tedesco, entrato in aula, lo invitò ad alzarsi e a mostrare di profilo il suo naso inconfondibilmente «ebraico». Ancora decenni dopo si stupiva che gli austriaci, e non solo loro, avessero potuto credere a «simili sciocchezze».
La madre Ellen Rose Regenstreif veniva da una famiglia di ebrei convertiti al protestantesimo che appartenevano alla colta borghesia viennese. Per sposare Ivan Petar Ilic (secondo la grafia originale), primogenito di una famiglia dalmata italofona che risiedeva a Spalato, Ellen aveva dovuto a sua volta convertirsi al cattolicesimo, religione rimasta punto d’orientamento dei figli. Ma è pur vero che, a causa di una lunga e tacita separazione dei genitori, Ivan e i suoi due fratelli restarono per anni nella casa materna di Vienna, dove si respirava ancora quell’ebraismo colto e radicale che stava per essere annientato.
Aveva 11 anni quando l’Austria venne annessa al Terzo Reich – un evento che segnò la sua vita. Dopo la morte prematura del padre, la famiglia, perseguitata per le leggi di Norimberga, trovò riparo a Firenze. Illich conservò il ricordo delle estati trascorse nella tenuta paterna sull’isola di Brac, dove gli abitanti vivevano in case che si erano costruiti da soli, percorrevano le strade consumate dal passaggio dei loro animali e vivevano in quella condivisione di beni che in inglese chiamò commons. Allo studio della teologia alla Gregoriana di Roma seguì l’ordinazione sacerdotale. Non seppe mai dire perché: «Non lo so. E lo stesso potrei rispondere per le decisioni più importanti della mia vita». Che cosa aveva cercato Illich nella Chiesa? Perché l’ingresso e poi l’uscita? Perché quel rapporto sempre teso, eppure mai davvero sciolto?

I testi pubblicati in questo primo volume, una «preistoria dell’autore Illich», come scrive il curatore Fabio Milana, sono la testimonianza della vita e della riflessione di un pensatore scomodo, che non si è mai piegato, un allievo di Arnold Toynbee, il grande e dimenticato filosofo della storia, cui è dedicata la tesi di dottorato, opportunamente ripubblicata. Per chi conosce Illich questa lettura è un modo di scoprirne aspetti inediti; per chi non lo conosce è il viatico per avvicinarsi al suo pensiero grazie a scritti brevi e semplici. «Non stranieri, eppure estranei» – quel che Illich dice a difesa degli immigrati portoricani a New York potrebbe essere detto di lui, che parlava correntemente undici lingue, ma non era davvero a casa in nessuna. Quella sua condizione di paria, al confine tra mondi diversi, è stata non già un freno, bensì la leva per uno sguardo critico e radicale che lo ha spinto a sollevare questioni capaci, oggi più che mai, di suscitare scalpore. Descolarizzare la società, perché la scuola, oltre a omologare e appiattire le differenze, indirizza verso il successo e la performance riducendo il sapere a uno strumento. Liberarsi dalla medicina, o meglio, dal sistema igienico-sanitario, un’istituzione edificata con il solo scopo di rendere più dipendenti coloro che ne usufruiscono e che vengono infatti chiamati pazienti.
Il suo furibondo attacco alla modernità e alle sue istituzioni, scuola, medicina, trasporti, è agli antipodi del progressismo alla buona e dell’oscura fede postdarwinista che ancora adesso domina la «sinistra» europea e soprattutto italiana. Chissà, forse proprio da Illich bisognerebbe oggi ripartire, da quella sua visione del male cristallizzato nelle istituzioni, nei sistemi dei servizi, negli esperti. Perfino più radicale di Foucault, con la sua archeologia della convivialità, quel modo di vivere irrimediabilmente perduto, Illich non intende in nessun modo tornare alle origini. Non è un reazionario. Ogni etichetta è quasi una violenza verso un pensiero complesso e poliedrico. Sarebbe una forzatura anche leggerlo come pensatore cristiano che, dinanzi alla corruzione attuale, guarda al primo cristianesimo. Per Illich la Chiesa è la madre di tutte le istituzioni. E lo spirito del cristianesimo è lo spirito della modernità di cui lui è stato il grande fustigatore. 
Forse è giunto il tempo di interpretare i suoi scritti senza pretendere di confinarlo a uno di quei recinti che in parte lui stesso aveva contribuito a installare intorno a sé. Che lo sguardo, come suggerisce Giorgio Agamben nella prefazione, non sia rivolto alla storia della salvezza deve far riflettere. Ma allora quanto messianismo ebraico risuona nel «qui e ora» di un regno che non guarda alla salvezza del dopo, ma chiede adesso un riscatto?