La Lettura, 31 maggio 2020
Intervista a Georgi Gospodinov
Una delle qualità maggiori di uno scrittore sta nel riuscire a immaginare il proprio lettore. Georgi Gospodinov parla, in questa intervista, di «un lettore post-apocalittico» ed è chiaro il collegamento con l’attuale pandemia, ma Gospodinov è un autore comunqueapocalittico, abituato a crolli di universi che si pensavano monolitici. Ne è un esempio il suo nuovo libro, Tutti i nostri corpi che ha un interessante sottotitolo: Storie superbrevi. Il testo è, infatti, composto di 103 racconti, in cui lo scrittore bulgaro ci fornisce l’incredibile enciclopedia di un mondo in via di sparizione. Come recita uno dei titoli dei pezzi che compongono questo mosaico narrativo, il libro potrebbe essere visto come una Collezione di storie impossibili: «Storia delle nuvole del XII secolo, Storia del desiderio di essere altrove, Storia delle mosche nate nel 1968 (e morte nello stesso anno), Storia della malinconia alle sei di sera, Storia delle storie impossibili». Gospodinov non smette mai di raccontare la realtà attraverso uno sguardo malinconico, in bilico tra il sorriso clownesco e la grande tradizione della letteratura mitteleuropea (Kafka, Kertész, Manea). Proprio per queste ragioni, per la lucidità con cui lavora sulle forme sia brevi che lunghe, abbiamo rivolto a lui alcune domande, nate dalla lettura del suo lavoro.
La prima domanda non può che essere dedicata all’attuale situazione mondiale. Lei crede che il Covid-19 abbia cambiato la sua scrittura? In questi mesi i lettori sono tornati a scoprire o rileggere i grandi classici, antichi e moderni, della letteratura della peste, lei pensa che potrà nascere un nuovo romanzo da questa pandemia?
«Ritengo che questo virus sia una macchina del tempo. Guardiamo vecchi film e vecchie partite di calcio, leggiamo vecchi romanzi, e sentiamo nostalgia di un mondo che solo tre mesi fa odiavamo. A gennaio, poco prima che tutto questo accadesse, ho finito il mio nuovo romanzo. L’ho composto negli ultimi tre anni, e mi sono convinto che l’ansia che viviamo oggi sia figlia di questi ultimi anni. La gente, però, ha ancora fame di storie, e questa mi pare una buona notizia. Penso che il saggio sia il genere adatto a raccontare l’attuale crisi; invece per un buon romanzo dovremo aspettare un po’ di più: Il diario dell’anno della peste di Daniel Defoe, uno dei testi narrativi più importanti sulla peste, è uscito sessant’anni dopo l’epidemia, che l’autore visse da piccolo. Queste cose richiedono tempo».
Con il suo nuovo libro sembra riprendere alla lettera la vecchia affermazione di Walter Gropius «Less is more», «il meno è più». Perché ha scelto questo modo di raccontare storie?
«La brevità mi ha sempre affascinato. Il mio esordio, pubblicato quando avevo 23 anni, dal titolo Lapidarium era composto di poesie di poche righe. Di solito le scrivevo sul retro dei biglietti del bus, questo si è rivelato un buon esercizio di brevità. Ho sempre amato la brevità, forse perché ero un bimbo molto timido, e la mia famiglia, come ogni famiglia patriarcale, non dava molto peso alla voce dei bambini. Così ho preferito starmene zitto e ascoltare le storie degli altri».
Quest’esigenza di «brevitas» pare una reazione al bombardamento di parole cui siamo sottoposti. Ciò che colpisce di questi racconti è il sentimento di attesa: il lettore legge e aspetta una rivelazione che però non avviene.
«A me sembra che con il passare del tempo, con l’età, l’uomo diventi sempre più ciarliero. Ecco, i racconti di Tutti i nostri corpi sono il ritorno al tempo benedetto della brevità e della fanciullezza. Lei parla di una rivelazione contenuta alla fine delle mie storie; io spero che questo accada nella mente del lettore. La brevità del testo dà la scintilla e lascia spazio alle fiamme dell’interpretazione. Il non detto è altrettanto importante che il detto. Anche se, per me, il taciuto è più importante, perché il compito delle parole è preparare il terreno e infine ritrarsi. Con questo libro non volevo scrivere aforismi o proverbi: penso ai miei racconti come l’inizio di una conversazione sulla deperibilità dei nostri corpi e del testo».
Un’altra presenza costante nella sua narrativa sono gli insetti e altri esseri microscopici e apparentemente insignificanti, che lei dota spesso di una funzione chiarificatrice, come se la loro presenza fosse la giustificazione del frammento scritto. Viene da pensare che per lei questi «micro-esseri viventi» abbiano la stessa funzione delle epifanie per Joyce o delle «intermittenze del cuore» per Proust. Azzardato?
«Una volta ho avuto un sogno profetico, una premonizione. Nel sogno sapevo che Dio era nascosto dietro alcune tende, e che si sarebbe rivelato a me. Le tende cadevano una dopo l’altra, e lentamente cresceva l’ansia di sapere cosa si sarebbe rivelato. L’ultima tenda era piccola come un fazzoletto. Quando cadde, io vidi un insetto, lucido. Ricordo che dormendo formulai la frase: Dio è un insetto. E quelle parole furono epifania ed eccitazione, furono paura e gratitudine. Tutto mi sembrò così logico, era come se lo sapessi da sempre. Solo ciò che è piccolo può essere ovunque, questa è la mia risposta. Per quanto riguarda Joyce e Proust, io possono solo levarmi il capello ogni volta che mi siedo a scrivere».
C’è nelle sue storie un grande interesse per ciò che dice la scienza. Che rapporto ha come scrittore con le scoperte della scienza? Possono le ultime scoperte in campo medico, matematico, fisico, biologico e astrofisico cambiare l’orizzonte dentro il quale si racconta una storia?
«Ultimamente scienza e letteratura stanno raccontando una stessa e unica storia. Infatti, hanno gli stessi oggetti di studio: l’uomo e la natura. Usano entrambe, come strumento d’indagine, il linguaggio. A me sembra che siano sorelle, nate dalla stessa madre. E quando decidono di fare a meno l’una dell’altra sono goffe. Sì, penso che dovrebbero aiutarsi a vicenda: la scienza allarga il campo di conoscenza della letteratura e così la letteratura fa con la scienza. Dopo la pubblicazione di Fisica della malinconia, uno scienziato mi scrisse: “Prima di leggere il suo libro non avevo mai pensato che alcuni processi della fisica quantistica potessero essere visti in un altro modo”. Le metafore sono e potranno essere uno strumento scientifico. Anzi se leggessimo oggi alcuni scritti di scienziati del XVII o XVIII secolo, come Linneo, potremmo stupirci di quanto siano simili alle fiabe di Andersen».
Con «Romanzo naturale» e «Fisica della malinconia» ha scritto due romanzi che prendono le forme classiche del genere e lo reinventano. In Italia spesso si parla o della crisi del romanzo o della sua morte. Pare che lei abbia nei confronti di questo genere, un atteggiamento poco teorico e molto empirico e concreto. Di volta in volta, sceglie lo strumento più adatto per le sue storie. Qual è il futuro del romanzo e quale sarà, se c’è, il suo compito?
«C’è una vecchia storia popolare bulgara, che racconta di una volpe che finge di essere morta. Bene, qualcosa di simile accade con il romanzo. Infatti, di tanto in tanto, viene annunciata la sua morte, salvo poi vederlo andare in giro sano e salvo; il romanzo ci prende in giro e trasforma la propria morte in un nuovo inizio. Non credo nella purezza del genere: ecco perché il romanzo non è ariano. Anzi proprio questa disomogeneità, questa mistura di diverse influenze, rende il romanzo vivo e adatto a raccontare il presente. In questi nostri tempi inquieti il romanzo è un’urgenza, potrebbe essere simile a una ricerca, a un saggio, può essere opera di meditazione e d’interpretazione, può infine raccontarci storie e conservare attraverso il racconto ciò che oggi accade. E se noi non saremo in grado di capirlo, chi verrà dopo di noi, il lettore post-apocalittico, lo saprà certamente interpretare. Il romanzo è una capsula del tempo per l’Apocalisse».
«Tutti i nostri corpi» è composto da 103 racconti, alcuni brevissimi: vorrebbe regalare ai lettori de «la lettura» la centoquattresima storia?
«Va bene, eccola: la copio direttamente dal mio taccuino. “Un sogno. Ho sognato mia figlia bambina. A cosa giochiamo? – le ho chiesto. Ai minuti, ha risposto. E cosa fanno i minuti? Ronzano via, ha detto. E di colpo ero sveglio”».