La Lettura, 31 maggio 2020
La voce di Wuhan zittita da Pechino
Ogni guerra ha la sua letteratura, alimentata dai diari di soldati, prigionieri, vittime civili, grandi invalidi. Tutti gli 11 milioni di cittadini di Wuhan sono reduci, sono stati circondati dal nemico invisibile, assediati in casa dalla quarantena (solo quando settimane dopo è toccata agli Stati Uniti, ci siamo infettati con la parola lockdown). La Cina è il primo Paese a dare al mondo un lunghissimo racconto ispirato dai giorni della paura, della malattia, della morte, dei sospetti. Potrebbe essere orgogliosa di aver battuto sul tempo i narratori di lingua inglese, che non mancheranno. Ma non è così. E quest’opera, più che una narrazione letteraria, è un caso politico.
Non era nato per essere stampato, questo Wuhan. Diari da una città chiusa (Rizzoli), aveva il passo di un blog quotidiano, tenuto per 60 giorni, con lo scopo di elaborare l’ansia e il dolore accumulati nelle ore di confinamento. Però l’autrice, Fang Fang, è una poetessa e scrittrice di successo, vincitrice nel 2010 del Premio Lu Xun. Un post nel quale possiamo immedesimarci noi italiani è quello del 2 febbraio. Quel giorno nel ground zero del Covid-19 erano morte 304 persone, le agenzie funebri erano chiuse, i corpi si accumulavano. «Oggi, il filmato che ho guardato con più difficoltà è stato quello di una ragazza che gridava e piangeva, mentre si trascinava dietro il carro funebre della madre. La sua mamma era morta e ora portavano via quel che restava. La ragazza non le potrà dare una degna sepoltura; probabilmente non saprà nemmeno che fine faranno le sue ceneri». A noi ricorda quella colonna di camion militari usciti da Bergamo, la peste descritta da Manzoni, anche se non ci sono promessi sposi nel lavoro di Fang Fang, non c’è una trama, si tratta di sentimenti di una donna che parlava a vicini di casa e concittadini, per condividere uno stato d’animo, non per dare prova di capacità letterarie, che pure ha.
«Ho cominciato il mio memoriale online perché l’unica cosa che potevo fare era scrivere, era il mio unico modo di evadere psicologicamente». E non pensava a un pubblico internazionale, perché quando ha aperto il blog da Wuhan, il 25 gennaio, il coronavirus ci sembrava lontanissimo e trascurabile. Fang Fang è il nome d’arte di Wang Fang, 65 anni, una carriera di successo. Non una dissidente, ma una personalità politicamente affidabile, tanto da essere stata presidente dell’Associazione degli scrittori dello Hubei, ben accetta al governo. Nessuna obiezione da parte delle autorità quando si accorsero che la scrittrice più famosa di Wuhan, disciplinatamente chiusa in casa come tutti, dal 25 gennaio faceva sentire la sua voce. Subito conquistò il cuore di molti concittadini.
Quattro milioni di contatti nei primi giorni, molti elogi come questo: «Leggerti è come aprire una valvola respiratoria nella cupezza». Ma poi lo choc collettivo ha lasciato il posto al ragionamento e alle recriminazioni. A inizio febbraio Fang Fang confidava: «Ora che ci penso, è stato mio fratello il primo a dirmi che questo virus era contagioso. Insegna Scienze all’università e il 31 dicembre mi aveva mandato per email uno studio intitolato Caso sospetto di virus di origine sconosciuta a Wuhan. Ma poco dopo le autorità dissero che non c’era contagio tra persone: “È prevenibile e controllabile”... Tutti continuammo a comportarci con tanta negligenza per venti giorni. Non avremmo dovuto avere imparato la lezione, dopo l’epidemia di Sars del 2003? Era una domanda che tante persone si stavano facendo. Perché?».
Quel post ha attirato l’attenzione dei funzionari politici di Wuhan, è suonato come una prima denuncia interna dei ritardi e degli errori commessi dai capi locali del Partito comunista. La valvola respiratoria dei sentimenti di Wuhan andava chiusa. La censura cominciò a cancellare i post. A metà febbraio, Pechino prese le distanze dai funzionari politici di Wuhan e li sostituì. Anche Hu Xijin, l’influente direttore del quotidiano comunista e nazionalista «Global Times», giudicò che Fang Fang andava tollerata come una camera di compensazione per le frustrazioni, rivolta tutto sommato a una nicchia di cinesi in prima linea, con le masse avvolte dall’informazione ufficiale.
Il racconto a puntate proseguì. Con piccoli fatti personali: «11 febbraio, oggi ho preparato quattro piatti e ho bollito più riso di quello che mi serviva. Ho finito il cibo per il cane, l’ultima scorta l’avevo fatta il giorno prima che cominciasse la quarantena, senza immaginare... ieri il veterinario mi ha detto di dargli il riso». E grandi sospetti condivisi: «Un mio amico dottore mi ha detto che quando i medici cominciarono a stare tutti male capirono che è una malattia contagiosa, ma non osarono parlare perché erano imbavagliati».
Quando, dopo due mesi, l’epidemia è stata arrestata a Wuhan, il nuovo proconsole del Partito, inviato direttamente da Xi Jinping, ha avuto la bella idea di lanciare una campagna di «educazione alla gratitudine pubblica verso il segretario generale Xi e il governo che hanno guidato la lotta vittoriosa». Subito è arrivato il ragionamento di Fang Fang: «Il governo è del popolo, esiste per servire il popolo. Coloro che dovrebbero alzarsi in piedi e dire grazie sono quelli che stanno al governo. Le autorità devono ringraziare le migliaia di famiglie che hanno visto morire i loro cari per l’epidemia... debbono inchinarsi di fronte alle decine di migliaia di medici e infermieri che combattono per noi e per loro». E poi: «La civiltà non è basata sul numero dei grattacieli o delle automobili, non è legata alla potenza militare, alla tecnologia, neanche all’arte. L’unico criterio per valutare la civiltà di una nazione è nel modo in cui tratta la gente vulnerabile».
Fang Fang ha chiuso il memoriale il 26 marzo, al sessantesimo capitolo: quel giorno le autorità hanno riaperto la provincia dello Hubei. Le ultime righe sono una citazione di San Paolo: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede». È cominciata una nuova battaglia. Le autorità vittoriose volevano rimuovere la memoria delle loro colpe iniziali e quando si è saputo che editori stranieri volevano pubblicare la raccolta dei post è partito l’attacco dei troll nazionalisti. Fang Fang ha ricevuto accuse e invettive dai moltissimi che in Cina credono nel Partito-Stato e bollano qualsiasi critica come «lavaggio del cervello ispirato dall’Occidente». Un sedicenne le ha scritto che è «un’ingrata, perché il Partito ci ha salvato dal nemico invisibile dell’epidemia». Lei ha risposto: «Ho attraversato la Rivoluzione culturale (è del 1955 ed era una adolescente nel decennio terribile 1966-1976, ndr) e anche tu e i tuoi compagni, come noi allora, dovrete combattere per uscire puliti dalla spazzatura e dalle tossine che vengono riversate nelle vostre menti di ragazzi».
Non sono un capolavoro, questi Diari da una città chiusa, qualcuno li ha paragonati a fogli sparpagliati usciti dal bloc notes di un corrispondente di guerra sotto il fuoco. Ma proprio chi nelle stanze del potere li voleva oscurare e denigrare ne ha assicurato il successo: sui social network cinesi l’hashtag #FangFang è stato visto 940 milioni di volte.