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 2020  maggio 31 Domenica calendario

Biografia di Pier Ferdinando Casini (al veleno)

Sarà per il sorriso, la zazzera bianca, il sigaro. Oppure per le mani in tasca e quell’aria di chi non ha mai lavorato in vita sua, ma Pier Ferdinando Casini mette sempre di buon umore. Non ha scheletri nell’armadio, solo ciccioli, signorine e chiacchiere. Passeggia dentro le sante istituzioni della Repubblica dal 1983, anno in cui l’indimenticato Toto Cutugno sbancò i botteghini della nazione cantando “sono un italiano, un italiano vero”: più o meno l’intera biografia di Pier.
Il quale ciondola nel Paese dei Balocchi, passando indenne dalla dc dei misteri dell’eterno Andreotti, alla plastica di Berlusconi, da Berlusconi alle mozzarelle di Mastella, da Mastella al loden di Mario Monti. E poi a Letta, Renzi, Gentiloni, per incassare dieci legislature su dieci, tutte con vista panoramica, aria condizionata e prima colazione incorporata. Bravissimo a appoggiare i governi di cui non faceva mai parte, accomodato nei perpetui retroscena, senza sognarsi di andare troppo in scena, meno che mai fare il ministro, il vice ministro, il sottosegretario con tutti i problemi contundenti da risolvere, le riunioni, le seccature, le responsabilità. Neanche a parlarne. Anzi parlandone moltissimo, accomodato sui divani del Transatlantico, davanti alle tovaglie bianche del Bolognese, dentro i salotti televisivi e, in via riservata, scaldandosi al tepore dei conciliaboli della sua personale corrente, battezzata di volta in volta Udc, Ccd e altri fantasiosi acronimi, specializzata nel Cencelli degli organigrammi.
Il bello di Casini è che non facendo niente, ha fatto così tante cose da possedere un curriculum da primato. Compreso l’incarico per lui ornamentale di presidente della Camera dei Deputati, anni 2001-2006, inaugurato con un memorabile discorso dedicato “al male oscuro del trasformismo”. Con i deputati assisi che si davano di gomito increduli, tutti pensando che era come ascoltare, con tutto il rispetto, una intemerata di Arsenio Lupin contro i borseggiatori.
Oggi, anno ventesimo del nuovo secolo, l’inestimabile Pier sta per compiere il suo capolavoro, entrare nella prossima rosa del Quirinale, appuntamento al 2022, verso la quale persino un campione di alte responsabilità come Mario Draghi avanza con cautela. Lui no, è felice per la maturità conquistata, pattina, fa capriole persino nel sottoscala di Barbara Palombelli con la Giovanna Maglie, Liguori e Capezzone ad augurare i forconi per Giuseppe Conte, e a chi gli chiede ragione di tanto entusiasmo quirinalizio, risponde: “Ho appena 65 anni. Perché no?”. Già, perché no?
Pier Ferdinando nacque un bel giorno del 1955 a Bologna, padre democristiano, nonché professore di latino e greco, madre bibliotecaria. Infanzia standard: oratorio, tagliatelle, messa domenicale. Già ai tempi del liceo classico Galvani bravissimo a scansare incarichi, tant’è che fu sua sorella Maria Teresa a prendersi uno schiaffo perché volantinava un volantino scritto da lui: “In effetti fu colpa mia”. E mentre i suoi coetanei nel turbolento ’77 mettevano a ferro e fuoco la Bologna di Renato Zangheri, sognando Radio Alice, lui si laureava in Giurisprudenza con tesi su “I sistemi organizzativi delle partecipazioni statali”. A 24 anni era già consigliere comunale per la dc. A 27 entra a Montecitorio con le lacrime agli occhi per la felicità: “Ringrazio i miei elettori. Sono qui per servirli”. Come no.
Tra tutti i mostri sacri della dc, bazzica Rumor, Taviani, Cossiga, ma alla fine sceglie Tony Bisaglia, il potente capo dei dorotei, che diventa il suo mentore. Bisaglia è un duro, si occupa di industria, commercio estero, correnti democristiane italiane e bavaresi. Peccato che nella brutta estate del 1984 cada misteriosamente dallo yatch della moglie, la baronessa Romilda Bollati di Saint Pierre, e anneghi davanti a Portofino, inaugurando una maledizione dell’acqua assassina che otto anni dopo inghiottirà suo fratello prete, don Mario Bisaglia, trovato morto in un lago del Cadore e il suo amico Gino Mazzolaio, tesoriere della dc veneta, scomparso nelle acque dell’Adige: entrambi indagavano sulla morte di Tony.
E Pier? Nulla, dopo tre Ave Maria è già diventato l’ombra di Arnaldo Forlani, nonché il responsabile della propaganda del partito, che vuol dire pubbliche relazioni, cene, e un sacco di tempo libero per dedicarsi alla sua naturale vocazione, le molte signorine di buona famiglia che gli sbocciano accanto: “Mai stato con le mani in mano, ovvio”. In prime nozze sposa la bellissima Roberta Lubich. In seconde, la ricchissima Azzurra Caltagirone, quella della dinastia. Fa quattro figli. E siccome è contrario al divorzio dai tempi del referendum del 1974, divorzia due volte su due, ma andando ogni anno in pellegrinaggio alla Madonna di San Luca e al Family Day: “Non capisco cosa c’entrino le scelte private con la difesa che io faccio della famiglia”.
Mentre è distratto, gli crolla l’intera Democrazia cristiana sull’uscio di casa, siamo a Tangentopoli, ma la polvere neanche lo sfiora. Lascia Forlani al suo destino, sale sul primo aereo, sbarca ad Arcore, dove Berlusconi lo accoglie “perché è bello”. Racconterà Mastella velenoso: “Io ridevo a tre barzellette del Cavaliere ogni dieci. Lui a dieci su dieci”. Tra battibecchi e pacche sulle spalle resta sempre a galla. Bossi lo battezza “Il carugnitt de l’oratori”. Lui lo elogia. Scalfaro e Berlusconi si detestano, ma Pier li ama tutti e due. Quando può, abbraccia Prodi, fa l’amicone di D’Alema e il compare di Gianfranco Fini. Avendo avuto per alleati Calogero Mannino, Totò Cuffaro e Marcello Dell’Utri, diventa intransigente coi Cinque stelle, che per lui non hanno il senso delle istituzioni. Nel 2017, persuaso dall’amico Renzi, accetta la presidenza della commissione che indaga sui crack bancari. Ma solo per condurla alla fonda nelle acque quiete e azzurre quanto gli occhi di Maria Elena Boschi. Una volta disse che il potere per lui “è il telefono che squilla”. Tutto qui. Se salirà al Quirinale sarà più divertente di Magalli.