la Repubblica, 31 maggio 2020
Lo stadio pieno per una partita che non c’era
E allora davvero una partita di calcio può avere una funzione taumaturgica? Pur di disputarla ci si può cimentare in qualsiasi condizione? È più assurdo giocare in uno stadio vuoto o uno stadio pieno dove non gioca nessuno? Per rispondere a queste domande di attualità ho fatto un salto indietro nel tempo di quasi diciotto anni. Era l’estate del 2002. Finiti i Mondiali in Corea e Giappone avevo deciso di trasferirmi al Cairo per raccontare dall’interno il mondo arabo. Mentre cercavo casa venni ospitato nell’appartamento di Emma Bonino. Lei non c’era, era partita per il Congo, per incontrare il presidente che chiamava “Kabila piccolo”. Nelle stanze vagava una cosmopolita comune. Al fondo, una freelance francese. Al centro, una popstar turca, depressa. Si trattava del cantante di una band di discreto successo (a giudicare da Google: i Modà del Bosforo). A rattristarlo: un matrimonio appena fallito. In Egitto aveva conosciuto e sposato al volo una ragazza americana. Quando lei aveva informato al telefono il padre texano delle nozze con un cantante musulmano, la risposta era stata: «Divorzia, torna, ti intesto il ristorante e ti regalo una Mustang». Lei era partita. La popstar disperata ripeteva: «Finirò per sposarmi cento volte come mio zio di Baku». Venne fuori che lo zio si “sposava” con una formula particolare, di durata temporanea, per potersi accompagnare a donne di fortuna senza commettere peccato.
Eppure, ogni mercoledì, la popstar si rasserenava, perché era il giorno della partita. Dato il calore diurno si giocava di sera. I calciatori partivano su quattro auto dirette verso il bordo della città, non lontano dal sito dove, improvvisamente, appaiono le piramidi. Raggiungevano un enorme spiazzo deserto e polveroso. Lì le quattro auto si fermavano, e si disponevano a coppie, distanti e fronteggianti, lasciando i fari accesi. Svolgevano così una doppia funzione: riflettori e pali. La partita poteva iniziare. Vista dall’alto, da un drone spia, doveva sembrare un miraggio: un nugolo di uomini affannati e male illuminati all’inseguimento di qualcosa di impercettibile nella labilità dei confini. Il momento più assurdo giungeva quando la palla, calciata con particolare forza, finiva fuori o “in rete”, comunque si allontanava. Allora chi aveva tirato montava su una delle auto-palo e partiva a recuperarla setacciando l’oscurità con i fanali. A ogni missione del genere compiuta dalla popstar turca si pensava potesse non tornare, affidando il suo dolore alla notte, all’eterno mistero dei faraoni, alla viscosità del fiume Nilo. E così, anche se non letteralmente, fu: una sera lasciò l’Egitto per riapparire probabilmente nella hit parade di Istanbul.
Intanto la situazione nell’area era divenuta tesa, si preparava l’attacco americano all’Iraq. Ovunque si organizzavano proteste di massa. Il regime di Mubarak, per evitare che fossero visibili e intralciassero lo svolgimento della vita pubblica, ma al tempo stesso per non essere tacciato di illiberalità, le consentì, a patto che si svolgessero dentro lo stadio. Si partiva per andare a manifestare nel recinto. I dimostranti raggiungevano gli spalti, lanciavano qualche slogan, battevano le mani, guardavano il vuoto al centro. Poi, da una curva partì un coro per la squadra locale dello Zamalek. L’altra rispose inneggiando alla rivale Al-Ahly e lo stadio si ravvivò. Sono più strani gli uomini che giocano nel buio, senza nessuno a guardarli, o quelli che guardano una partita che non c’è?