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 2020  maggio 31 Domenica calendario

Intervista a Francesco Piccolo

Quando si intervista Francesco Piccolo si è sempre in tre, insieme allo scrittore in carne ed ossa c’è il suo avatar letterario e non sai mai se quel personaggio serve a rivelarlo o a fargli da scudo. Il Francesco Piccolo dei Momenti trascurabili (Einaudi) è meno tormentato del maschio dell’ultimo romanzo L’animale che mi porto dentro , più allegro, più incline a guardare fuori piuttosto che a indagare la propria bestialità. Fuori ci sono gli attimi di una vita come tante, fatta di dettagli irrilevanti, comici, paradossali, a volte malinconici. Un catalogo di pensieri sparsi e situazioni comuni che fanno ridere anche quando affrontano temi seri e girano intorno a questioni filosofiche essenziali come il perché della vita e della morte. Siamo al terzo atto di una trilogia preceduta dai Momenti di trascurabile felicità e dai Momenti di trascurabile infelicità . Il libro si apre con una schermaglia esistenziale. La moglie dice: «Prendiamo tutti i soldi che abbiamo e andiamo in Polinesia, che ce li teniamo a fare i soldi, e se poi moriamo?». E Piccolo: «E se poi moriamo, chi se ne importa di essere andati in Polinesia? Cioè, quando siamo morti, a chi lo diciamo che siamo stati in Polinesia?». Parliamo via Skype, lo scrittore è nel suo studio romano dove sta lavorando alla sceneggiatura della terza serie dell’ Amica geniale e a "una specie di romanzo" che assicura non sarà sul coronavirus.

Ha preso appunti durante la pandemia?
«Ho notato la tendenza a iniziare i discorsi con "secondo me": secondo me si farà il vaccino o non si farà, secondo me moriremo o ci salveremo. Anche il "secondo te" va molto: secondo te il vaccino lo faranno? E tu vorresti rispondere "e che ne so" ma poi dici "sì certo, lo faranno"».
Perché l’attraggono i fatti minimi dell’esistenza?
«Uno scrittore ha sempre a che fare con i dettagli. In fondo però quelli che descrivo come dettagli trascurabili non lo sono, penso che racchiudano la sostanza della vita. I Momenti parlano di piccole cose ma anche di morte, invecchiamento, amore, amicizia, tradimento. Mi sembra possano dare conforto, soprattutto in questi giorni in cui la vita ci è apparsa più precaria».
Italo Calvino descriveva il suo Palomar come un tipo del quale il mondo poteva benissimo fare a meno. È anche la sua filosofia?
«Non c’è dubbio, la prima cosa trascurabile siamo noi. Ho letto il libro di Calvino da ragazzo, mi ha lasciato un’impressione molto forte, mi colpì l’attenzione spasmodica alla vita circostante».
Sembra si diverta a rivendicare la superficialità.
«In genere si rivendica solo la profondità, credo sia giusto far recuperare alla superficialità il terreno perduto, darle dignità di esistenza. Poiché per la profondità votano tutti, io ho deciso di votare per la superficialità».
L’aiuta a vivere meglio?
«Non lo so se poi si vive meglio, la verità è che alla base c’è un disagio profondo che nascondo, rimuovo. L’atto liberatorio non è realmente liberatorio, è solo un tentativo».
Sta parlando di lei o del suo avatar letterario?
«Sono insonne da quando ho 19 anni, di notte la mia vita è un tormento: sono attraversato da pensieri, da un coacervo di nevrosi, paure, dubbi. Mi macerano talmente tanto che la mattina mi sveglio con sollievo e sento che la giornata sarà migliore».
La salva la quotidianità?
«Ci salva l’attenzione ai momenti trascurabili, non vale solo per me».
Per questo nel libro inventa la figura del Semplificatore, un personal trainer che insegna a fregarsene?
«Se non sai neanche che tipo di cappuccino vuoi, con quanto latte, quanta schiuma, quanto caffè, forse deve arrivare qualcuno che ti dice "bevilo e stai zitto"».
Perché rifugge dagli atteggiamenti più romanzeschi e eroici?
«Da scrittore mi piace chi inciampa, chi ha dei problemi, chi ha dei vizi, chi racconta quella parte di noi più discutibile, quella buia che non vogliamo vedere».
Anche se significa mostrare le sue ossessioni sessuali più becere?
«Fa parte del tentativo di raccontare il nostro lato brutale, quello che nella vita tentiamo di tenere a bada e che nei romanzi può essere liberato. Cerco di scrivere quello che voglio, fregandomene delle conseguenze. Come dice quella canzone di Mimmo Locasciulli: "Io dentro i miei polmoni ci metto le canzoni che tirano a me"».
Ha vinto lo Strega e di recente il David di Donatello come sceneggiatore per "Il traditore " di Bellocchio. Come mai insiste a raccontarsi come uno qualsiasi?
«Il problema è come ci si sente. Io continuo a sentirmi come uno di Caserta che da un momento all’altro può essere rispedito da dove è venuto. So che potrebbe risultare insincero ma è vero. Nell’ Animale che mi porto dentro ho cercato di affrontare l’altro me stesso, quello che si sente sto cazzo , in realtà non riesco a staccarmi dalla mia immagine di ragazzo di provincia. Lavoro ossessivamente, ho consapevolezza di quello che ho fatto, ma in fondo mi pare ancora di essere un intruso».