Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  maggio 31 Domenica calendario

Dèi e imperatori in miniatura

È il 1545, e mentre a Trento si sta preparando il Concilio, ai Padri riuniti giunge la notizia che a Roma è stata effettuata una singolarissima scoperta archeologica. Stavolta non si è trattato della “solita” statua o del “solito” frammento d’architettura. Stavolta, nell’«Horto di San Pietro in Vincola», è stata rinvenuta un’eccezionale quantità di jocalia, ovvero di gemme, gioielli e monili ricavati lavorando le preziose pietre dure. Il numero degli oggetti ritrovati è così ingente e la loro varietà così ricca, da rendere plausibile l’ipotesi che il sito altro non fosse che un antico opificio per la lavorazione delle pietre preziose. Sappiamo che in queste officine d’intagliatori di gemmae - oltre all’importante produzione di gioielli, cammei e sigilli – venivano anche realizzate sculture a tutto tondo di piccolissime dimensioni. Questa particolare forma d’arte suntuaria, posta a metà strada tra la glittica e la scultura vera e propria, poteva vantare una storia considerevole, che si dipanava dalle prime testimonianze note in età alessandrina (alla corte di Tolomeo II Philadelphos), fino al V secolo dell’era cristiana. A Roma, la sfrenata passione per gemme e cammei venne sostanzialmente importata a seguito delle guerre orientali, agli inizi del II secolo a.C., quando approdarono in città, assieme a ingenti bottini artistici, anche manufatti di questo genere e maestri abili nel realizzarli.
Gemme e pietre incise iniziarono dapprima ad adornare anelli e pendenti, poi andarono a impreziosire suppellettili domestiche e complementi d’arredo: è noto che le stanze dei romani più danarosi sfoggiavano vasellami di agate murrine, assieme a stoviglie, candelabri, armi, strumenti musicali, letti e mobili sfarzosamente incastonati di diaspri, agate e altre pietre rare. Si arrivò addirittura a usare queste preziosità per intarsiare i pavimenti, suscitando lo scandalo di poeti e moralisti (tra cui Seneca, Orazio, Ovidio, Marziale, Giovenale) che stigmatizzarono con severità questi lussi smodatamente esibiti. Ma le loro parole caddero nel vuoto. Infatti, l’asiatica luxuria per le pietre preziose non andò attenuandosi, anzi crebbe a dismisura nella Roma imperiale, assumendo i connotati di una virulenta mania, con uomini di rango e cittadini esemplari capaci di infrangere leggi, sferrare colpi bassi e disonorare gli amici pur di impossessarsi di jocalia particolarmente rare e preziose.
Il mondo antico aveva conoscenze mineralogiche molto approfondite e sostanzialmente in linea con quelle moderne. Il trattato De lapidibus di Teofrasto (redatto attorno al 315 a.C.) contiene un’attendibile classificazione delle pietre, basata sul colore e sulla lucentezza dei materiali, ma anche sulla durezza, dettaglio quest’ultimo non secondario perché legato all’indicazione degli strumenti e delle tecniche per tagliare e scolpire la coriacea materia. La classificazione rigorosamente naturalistica fatta da Teofrasto non coincide però con i numerosi Lapidari composti in età ellenistica e romana, segnati da una disamina essenzialmente farmacologica, magica, simbolica ed esoterica delle pietre. Sarà Plinio il Vecchio, nel XXXVII libro della Naturalis Historia, a far convergere le tradizioni naturalistica ed esoterica: nella trattazione dedicata alle pietre preziose, l’enciclopedista romano fornì per ogni tipologia di pietra e in egual misura sia le descrizioni fisiche sia le “proprietà” magiche e taumaturgiche. Dobbiamo essere grati al poligrafo comasco: è grazie a questo testo se noi oggi ci orientiamo abbastanza bene tra calcedoni, agate, corniole, onici, cristalli, ametiste, diapri, acquamarine, turchesi e via dicendo.
Con questi preziosi materiali si realizzavano dunque molte cose, principalmente cammei, gioielli e vasellame, ma anche – lo si è detto – raffinate sculture di piccole dimensioni, poste a metà strada tra le gemme e le statue. Tali mirabili sculturine raffiguravano in prevalenza ritratti, e gli studiosi moderni hanno classificato questo specifico genere con il nome di Precious portraits. Dario Del Bufalo – archeologo romano tra i massimi esperti di marmi e pietre antiche – ha appena dato alle stampe per Allemandi un libro specificamente dedicato a questo particolarissimo genere artistico, nel quale non solo si affrontano la storia, i materiali, gli impieghi, le iconografie e la fortuna collezionistica di questi manufatti, ma – per la prima volta – se ne fornisce il catalogo generale, composto da oltre 600 pezzi conservati nei musei pubblici e nelle collezioni private di tutto il mondo.
Il fascino della materia e la qualità dei pezzi (ma anche le capacità narrative dello studioso) rendono questo libro particolarmente accattivante. Dopo aver premesso il ruolo basilare delle fonti antiche in questo genere di ricerche, e aver fornito un dettagliato regesto delle pietre usate per questo tipo di intagli, lo studioso entra nel vivo della narrazione rispondendo a due interrogativi: 1) che cosa raffigurano le sculture in miniatura, 2) a che cosa servivano.
La stragrande maggioranza dei reperti pervenuti sono ritratti di uomini, donne e bambini. Ma vi sono anche piccole statuette a figura intera, componenti di corpo e abbigliamento umano (gambe, braccia, panneggi, eccetera). E si registra in aggiunta un buon numero di animali.
I mini ritratti immortalano in primo luogo gli imperatori di Roma (Augusto, Tiberio, Domiziano, Traiano, Adriano, Commodo, Caracalla, Severo Alessandro, eccetera), alcune delle loro consorti e alcuni dei loro parenti stretti. Molte altre teste sono invece i ritratti privati di dignitari, uomini politici, militari e intellettuali, distinguibili in particolare dai dettagli relativi alle loro cariche o professioni (scettri consolari, aquile, corazze, corone di alloro). 
Nel catalogo approntato da Del Bufalo vengono poi, per numero e importanza, le effigi delle divinità e dei personaggi della mitologia. Nelle micro statuette non è difficile riconoscere Iside, Serapide, Venere e Minerva, ma anche Ercole, Esculapio e Ganimede. Infine, il catalogo si completa con la schedatura di un piccolo zoo in miniatura, una sorta di serraglio traslucido e variopinto di cani, gatti, leoni, pantere, asini, cavalli, scimmie, delfini, aquile, anatre, rane e cicale, tutti alti tra i 3 e i 10 centimetri al massimo.
Ma a che cosa servivano tutti questi mirabili oggettini?
La funzione dei ritratti dinastici risulta abbastanza chiara, ed è legata alla diffusione delle immagini del monarca regnante (e dei suoi congiunti) come strumento di propaganda politica e di consenso. In quanto tali, questi preziosi ritratti venivano spesso incastonati nei simboli del potere: ad esempio in corone e scettri, come documenta una moneta d’età augustea nella quale vengono elencati gli attributi imperiali e si parla, tra gli altri, di corona aurea cum gemma e di scipio eburneus cum aquila. È probabile anche che i ritrattini imperiali restassero per così dire “sciolti”, e avessero una vita autonoma come preziosi doni da destinare ad amici e sostenitori. In questo caso potevano servire come “arredi” e andare ad arricchire le parti più intime delle case romane, ovvero i cubicula e i lararia, dove si coltivava il culto domestico degli antenati e degli dei. Ed è dunque nei lararia e nei cubicula che, probabilmente, si potevano incontrare, incastonati nei muri e nei mobili, i ritratti di imperatori, politici, militari e intellettuali, accanto al pantheon degli dei e degli eroi mitologici. Il tutto rigorosamente in miniatura. 
Le figure zoomorfe, infine, avevano anch’esse funzioni d’arredo alla stregua di moderni soprammobili. È interessante notare, però, che tali oggetti potevano seguire i proprietari nell’aldilà: nella tomba della prima moglie dell’imperatore Onorio, rinvenuta a metà Cinquecento durante gli scavi per la nuova Basilica di San Pietro, emersero, con grande sorpresa di tutti, «una lumaca di cristallo e diversi pezzi d’agata, con certi animaletti». 
La passione per questi manufatti preziosi non si estinse con l’Impero dei Cesari. Nel Medioevo e nel Rinascimento venne riattivato il loro collezionismo, e i piccoli intagli romani ricomparvero montati su copertine di libri liturgici, su anelli per gentiluomini, su pendenti e gioielli destinati alle più nobili dame. E Luigi Valadier, in età neoclassica, ancora realizzò mirabili gioielli avendo come punto di partenza proprio una testolina in calcedonio del grande Ottaviano Augusto.