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 2020  maggio 31 Domenica calendario

Biografia di Andrew Carnegie, miliardario da biblioteca

Di nascita era scozzese, ma in America era diventato uno dei più grandi multimiliardari della storia. Al punto, si dice, che fosse stato il modello per Scrooge McDuck (da noi, Paperon de’ Paperoni) che il disegnatore Carl Barks aveva inventato per la Disney nel 1947. 
Ma per avere un’idea di quanto fosse ricco Andrew Carnegie (1835-1919), a noi comuni mortali non conviene tentare di mettere in fila degli zeri su di un foglio di carta, correndo magari il rischio di non riuscire poi a raccapezzarci. È forse meglio se prendiamo per buona la cifra attribuita a suo tempo allo stesso zio Paperone e calcolata, fino all’ultimo spicciolo, in «607 trilioni, 386 zilioni, 522 bilioni di dollari e 36 centesimi». 
A quel punto, e dopo esserci chiesti che cosa possa mai farsene uno di tanto denaro, saremo perlomeno in grado di dire – documenti alla mano – che Carnegie non aveva nulla dell’avaro classico della letteratura (da Plauto a Molière a Balzac); né era tipo da sguazzare in una vasca piena di bigliettoni verdi e monete d’oro, come faceva appunto Paperone.
Personaggio difficilmente comprensibile secondo i criteri di un’epoca come la nostra – in cui, più che il lavoro e l’industria, è sovente la finanza a dettar legge -, Carnegie è stato un protagonista in «tutte le fasi dell’industrialismo e dell’età della concorrenza» ed è anche ricordato come «uno dei massimi filantropi della storia». 
Nel 1901, infatti, arrivato a 66 anni e non credendo che fosse cosa buona lasciare il patrimonio agli eredi («perché un giovane deve farsi da sé») aveva venduto il 90 per cento delle proprie aziende che andarono a formare il nucleo della colossale United States Steel Corporation. Si era riservato una rendita di 50mila dollari l’anno – cifra comunque enorme per quei tempi – e aveva dato il resto in beneficenza. Biblioteche, sale per concerti, mense, abitazioni, ospedali e teatri. 
Che negli Stati Uniti un miliardario – «uno sporco capitalista» – fosse anche un filantropo non deve sorprendere. Come scrive Francesco Magris nella introduzione a Il vangelo della ricchezza (1889) dello stesso Carnegie (Garzanti, 2016), quasi tutti i magnati hanno sempre devoluto «ingenti risorse finanziarie a diverse iniziative culturali», perché questo era – ed è – un tratto caratteristico dell’America. Lo hanno fatto Rockefeller, Vanderbilt e Ford; e, ai nostri tempi, «George Soros, Bill Gates e Brooke Astor, la “regina della Quinta Strada e di Harlem”, scomparsa nel 2007 all’età di 105 anni, la quale sosteneva che “i soldi sono come il concime e vanno sparsi un po’ dappertutto”». 
Nemico dell’assistenzialismo, che non solo incoraggia «i pigri, gli ubriaconi e gli sfaccendati», e che finisce per trattare da sudditi – leggi: come esseri inferiori – i beneficiari, Carnegie intendeva l’attività filantropica come un «antidoto al diffondersi del socialismo». Da fedele adepto di Herbert Spencer, riteneva che i più abili e intraprendenti all’interno della società avessero il dovere di produrre e accumulare ricchezza con il fine ultimo di restituirla ai concittadini sotto forma di opere di pubblica utilità. Cosa che «lo Stato – aggiungeva – non può mai realizzare senza ricorrere alla tassazione». 
Carnegie era emigrato negli Stati Uniti con i genitori quando aveva 12 anni e aveva portato con sé il ricordo di un nonno che nel piccolo villaggio di Dumferline era famoso per il suo buonumore. Ma l’ottimismo, che pure in America era stato elevato in quegli anni a categoria dello spirito da un filosofo come Ralph Waldo Emerson, di certo non sarebbe mai potuto bastare per trionfare nel mondo degli affari. Carnegie era infatti arrivato ad accumulare una montagna di soldi grazie a uno straordinario spirito imprenditoriale e a una singolare rapidità di giudizio, favorite entrambe dalle condizioni ambientali. Un territorio sterminato da conquistare e la necessità di ricostruire un Paese che dalla Guerra civile era uscito in ginocchio. 
Venuto dal nulla e autodidatta, Carnegie aveva una visione paternalistica della società e delle imprese; e nell’autobiografia – uscita postuma nel 1920, giusto cent’anni fa (I pilastri del successo, Gribaudi, 2017) – ricorda a ogni piè sospinto la centralità dell’istituzione della famiglia e l’importanza sociale proprio di quelle virtù pubbliche e private che sarebbero state di lì a qualche tempo derise dalla retorica di un secolo – il XX – che lui stesso e per sua fortuna avrebbe vissuto soltanto in parte.
C’è chi afferma, probabilmente a ragione, che oggi, con quelle idee antiquate e naïf, Carnegie non farebbe molta strada neppure come studente di economia. E forse ancor meno sarebbero proponibili i suoi scritti in una facoltà di lettere, se non come documenti d’epoca.
Bisogna però aggiungere che, a ragion veduta, Carnegie era uno scrittore efficace e di grande successo. Paragonabile – per idealismo, amor di patria e del prossimo (propensione al socialismo, a parte) – al nostro Edmondo De Amicis, ottimo prosatore a sua volta, anche se oggi fuori moda al pari delle buone maniere, dei borsalino e delle ghette. 
Narratori e memorialisti entrambi, Carnegie e De Amicis sapevano catturare l’attenzione dei lettori parlando la loro stessa lingua. Al punto che il nostro Edmondo de’ Languori, come lo chiamava Carducci, era prima riuscito a vendere 30mila copie con un reportage di viaggio sulla Spagna «in un Paese, l’Italia, in cui il 70 per cento delle persone non sapeva leggere»; e poi, grazie a un colpo di genio dell’editore Treves, a toccare quota 300mila con il libro Cuore.
Ogni epoca ha le proprie voghe e si nutre delle proprie favole. Ed è un esempio il fatto che, nel torno d’anni in cui uscì l’Autobiografia di Carnegie, videro la luce i capolavori del modernismo – da Joyce a Proust e da Kafka a Gertrude Stein – che oggi studiamo come il non plus ultra della letteratura mondiale e che all’epoca lessero in tre o quattro gatti. I soliti addetti ai lavori.
Ragion per cui, chi volesse sapere oggi chi fossero davvero e che cosa pensassero i nostri bisnonni, di qua e di là dell’Oceano, farà bene a tener conto della diffusione di certe riviste formato famiglia come «The Saturday Evening Post» e «La Domenica del Corriere», oltre alla lista dei best seller di quegli anni, che non è detto possano soddisfare le nostre simpatie o corrispondere ai nostri valori. 
Carnegie credeva nelle «magnifiche sorti e progressive» dell’età della ragione e del positivismo, e la favola bella contenuta nella storia della sua vita, nonché nelle successive biografie e nei documenti d’archivio, è riassumibile in un semplice numero. Lo scrivo in cifre e per esteso – 2.500 (duemilacinquecento) – perché corrisponde al numero, davvero impressionante, di biblioteche grandi e piccole che Carnegie fece costruire a proprie spese in Scozia, Inghilterra, Galles, Irlanda e Stati Uniti. 
Antimperialista e pacifista convinto, Carnegie credeva che si potessero eliminare – con la buona volontà, l’attività di ricerca e l’istruzione – tutti i conflitti sociali e internazionali, e tutte le guerre, dalla faccia della Terra. Visse abbastanza a lungo, come ebbe a scrivere Bertrand Russell, «da congratularsi con Woodrow Wilson per il trattato di Versailles, ma non abbastanza per vedere che forse non era il caso di compiacersene». 
E tuttavia è un segnale importante il fatto che, alla fine della guerra, Carnegie abbia pagato di tasca propria la ricostruzione di tre biblioteche al di fuori dei Paesi di lingua inglese – a Belgrado, Lovanio e Rheims – che erano andate distrutte nel corso del conflitto.