il Giornale, 31 maggio 2020
Biografia di Gino Cappello
Sandro Ciotti, che di calcio se ne intendeva ed era innamorato di Johann Cruijff tanto da raccontarlo persino in un film, aveva un’idea molto chiara su chi fosse il miglior calciatore italiano di tutti i tempi: Gino Cappello. Gino chi?, penserà la maggior parte di chi non ha passato gli ottanta e non è uno studioso di storia calcistica, eppure stiamo parlando proprio di Gino Cappello, «il miglior calciatore italiano, almeno dal punto di vista squisitamente tecnico», parola di Ciotti che secondo alcuni sarebbe stata condivisa anche dal Barone Liedholm, uno che di calciatori ne ha visti da vicino proprio tanti.
Ma chi era Gino Cappello? Intanto un mito del Bologna anni Quaranta-Cinquanta, ma soprattutto croce e delizia di quella squadra che ormai non faceva più tremare il mondo, ma non era ancora quella che avrebbe riportato lo scudetto sotto le due torri negli anni Sessanta. Già, perché Cappello, nato a Padova il 2 giugno del 1920 e cresciuto nell’oratorio del Patronato dei Carmini, oltre ad essere stato un talento incompiuto è sempre capitato anche nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Sì, perché il suo primo salto di qualità calcistico lo fa nel 1940 passando dal Padova di serie B al Milan comprimario di quegli anni, dominati dal Bologna, vincitore di due campionati in tre stagioni. E per contro, Cappello passerà dai rossoneri ai rossoblù proprio quando il Milan degli anni Cinquanta tornerà a mietere scudetti.
Di Gino Cappello, fisico da bomber ma movenze tecniche da fantasista, si era infatti innamorato il leggendario patron bolognese Renato Dall’Ara, che aveva proposto al Milan lo scambio con il grande uruguayano Hector Puricelli, ormai ai ferri corti con l’ambiente felsineo. Cappello al Milan aveva contribuito a tenere in piedi la squadra formando una coppia di mezzali niente meno che con Pepin Meazza, ormai in fase discendente e scaricato dalla sua Inter, alle spalle di Aldo Boffi. Tre campionati in rossonero, 29 gol, ma lasciandosi alle spalle un dubbio irrisolto se fosse più una mezzala o un centravanti.
Di fatto la sua caratteristica era la lunaticità. Capeo, come lo chiamavano con inflessione veneta, era capace di risolvere una partita da solo con giocate fantastiche, come di assentarsi completamente dal gioco, secondo l’umore con cui si era alzato dal letto. Tra gli episodi che lo raccontano ce n’è uno in cui Gino si sarebbe fermato improvvisamente a metà campo a guardare un aereo che passava. E per svegliarlo gli avrebbero gridato: «Guarda che la guerra è finita...».
Ma a proposito di aerei, c’è da dire che quando Pozzo deve ricostruire la Nazionale dopo la tragedia di Superga, nella prima partita giocata dagli azzurri contro l’Austria a diciotto giorni dallo schianto, la maglia numero 10 che era stata di Valentino Mazzola tocca proprio a Cappello. E Gino onora la scelta segnando il primo gol della vittoria per 3-1. Non solo ma, pur avendo debuttato in Nazionale a 29 anni e avendo giocato solo 11 volte in azzurro, Cappello partecipa a due Mondiali vestendo la maglia numero 10 in entrambi: in Brasile contro il Paraguay, dopo aver esordito con il 9 contro la Svezia, mentre a Svizzera ’54, quando per la prima volta si gioca con la numerazione fissa da 1 a 22 è proprio Gino ad avere diritto alla maglia più affascinante, quel numero 10 che poi sarà di Sivori e Rivera, Baggio e Del Piero, Totti e Cassano. Ma Cappello sarà l’unico, con Francesco Totti, ad averla indossata in due edizioni.
A Bologna il fuoriclasse padovano conquista subito il popolo rossoblù anche se continua a giocare a corrente alternata. Eppure in quegli anni si va al vecchio Littoriale solo per vedere i suoi numeri. Sta di fatto che in dieci campionati Cappello segna un’ottantina di gol, ma il suo palmares resta incredibilmente vuoto. In compenso Cappello fa impazzire i bolognesi e soprattutto il presidente Dall’Ara per ben altri motivi. Già nel ’48, infatti, si becca due mesi di squalifica perché viene sfiorato da un illecito sportivo legato a Bologna-Napoli. Ma questa è solo un’anteprima delle vicende più pesanti che coinvolgeranno Gino negli anni a seguire.
Nell’estate del ’52 il primo fattaccio: Cappello partecipa al Palio calcistico petroniano, in pratica il torneo dei quartieri bolognesi, difendendo la maglia del Bar Otello (Pensate un po’ la distanza siderale tra il calcio di oggi e quello di allora: è come se questa estate Ibra o Lautaro, invece di andare alle Maldive o alle Seychelles, decidessero di passare le serate a tirar calci sui campi di periferia).
Fatto sta che alla fine di una partita del torneo, l’arbitro ragionier Palmieri viene aggredito da qualcuno in una zona d’ombra. E questo qualcuno, secondo la denuncia del contabile in giacchetta nera, è proprio il nostro Cappello. Che di lì a poco viene radiato dalla federcalcio. Sui contorni dai risvolti penali indaga però anche la Procura di Bologna che, anche di fronte a una mezza ritrattazione dello stesso Palmieri, riabilita Cappello. Ma intanto il campionato ’52-53 è andato in bianco.
Il buon Gino però torna a giocare nel Bologna, torna in azzurro ai Mondiali svizzeri del ’54 e chiude la carriera in B con il Novara, prima di dedicarsi a una fugace avventura da dirigente. Rapidissima anche perché Cappello cade nuovamente in una tentata corruzione e viene radiato per la seconda volta. E si ritira a gestire una tabaccheria in centro a Bologna, ripensando magari a quello che sarebbe potuto essere e non è stato. Nel ’50, dopo una doppietta segnata all’Inghilterra con la Nazionale B, poteva andare al Leicester. Preferì restare a Bologna per far crescere Pascutti e Pivatelli, dopo aver giocato con leggende come Meazza e Piola. Ma Gino sosteneva Sandro Ciotti era più forte, quasi come Cruijff. Tanto di Cappello.