All’artista che incarna la fatalità emotiva e la realizza nel suo rapporto speciale con il mondo, la vita non risparmia dolorose sorprese. Non quel dolore che Dostoevskij pose alla base della propria arte, ma un senso di prostrazione tangibile e insidiosa, come quando si scopre una malattia contro la quale combattere al buio, sperando che siano le statistiche a offrire un margine ulteriore di salvezza o di tempo: «Il tempo nel corso della malattia diviene un tratto ossessivo. Come sarò domani? E dopodomani? Cosa mi accadrà se gira voce che quel male non vuole fare prigionieri?». Mi sento con Lino Mannocci, artista importante e appartato, del quale qualche tempo fa avevo letto un’intrigante storia sul matrimonio del pittore Gino Severini con Jeanne Fort nella Parigi del 1913. Testimoni dello sposo furono Apollinaire e Marinetti, come se cubismo e futurismo fossero convolati a giuste nozze. «Nel racconto ho cercato l’aspetto emblematico di un momento irripetibile. C’erano i migliori talenti delle avanguardie invitati a quel matrimonio. Ho lavorato sui reperti documentari manipolando fotografie e cartoline e poi dipingendo una serie di quadri che tenevano sullo sfondo quel contesto. Ero come l’ospite giunto in ritardo che ha potuto cogliere la gloria e il disfacimento di quel mondo».
Le cose sono destinate a deteriorarsi nell’arte come nella vita?
«Sono due forme di decadenza diverse. L’arte che si deteriora diventa accademia. Come è accaduto alle avanguardie. La vita no, la vita che trascorre mette di fronte ai propri limiti, al più o meno lento esaurirsi dell’energia. L’arte mi ha aiutato a vedere meglio in me, più che non le cosiddette esperienze di vita, con i suoi soprassalti e imprevisti».
Intendi dire che l’arte è stata una porta aperta alla tua introspezione?
«Mi ha aiutato a scegliere i temi che poi sono quasi sempre il frutto di una ricerca nella tradizione e nel presente. Potrei parlare a lungo dei molti filoni che hanno punteggiato gli ultimi cinquant’anni del mio lavoro come Susanna e i vecchioni, L’Annunciazione, Mare-Muro, Lot e le figlie, le mie Nuvole e recentemente Il matrimonio di Severini a Parigi nel 1913. Ogni volta che scelgo un tema è come se ricominciassi da capo».
Come ti sei avvicinato alla pittura?
«L’ho fatto più per inadempienza che per scelta. Ero un adolescente triste, ma non sapevo perché. Mi sentivo solo e perso in un mondo grigio che non capivo. Invece di andare a scuola, la mattina mi dirigevo verso la spiaggia. E restavo lì, durante la stagione invernale, nascosto tra gli stabilimenti balneari di Viareggio. Fu la mia ribellione passiva. Quel Natale del 1957 fui ritirato da scuola. Mio padre mi spedì a bottega da un corniciaio che era a pochi passi dal suo negozio di barbiere. Trascorsi circa un anno in quel negozio».
Fu importante?
«Imparai poco e mi annoiai molto. L’unico momento interessante era quando nel tardo pomeriggio un gruppo di pittori locali si riuniva regolarmente lì a chiacchierare dei propri quadri. Dilettanti che ascoltavo con curiosità nei loro commenti e mi stupivo per la loro passione. Fu un seme che crebbe lentamente. Ripresi la scuola, senza che il mio vuoto fosse riempito e poi un giorno comprai un cavalletto, dei colori e in gran segreto cominciai a dipingere. Non parlai con nessuno di questa passione, neppure quando, alcuni anni dopo, partii per Londra. La pittura era ed è rimasta la mia avventura privata che, grazie a Mario Cardosi, l’amico di mio padre nel cui negozio avevo spazzato per terra e consegnato cornici a domicilio, ha dato senso alla mia esistenza».
Londra come entrò nella tua vita?
«Fu una decisione che maturò nella primavera del ’68. Seguivo gli accadimenti parigini. E seppi che il 31 agosto ci sarebbe stato nella vicina Carrara un congresso anarchico. C’erano delegazioni giunte da tante parti del mondo. Mi precipitai con entusiasmo.
Dopo un paio di giorni di parole reboanti cominciarono i primi litigi rancorosi. Daniel Cohn-Bendit si spostò con il suo gruppo nella vicina Marina di Massa per un mini congresso. Mi resi conto che quella sinistra così frantumata era ridicola. E poi non avevo la fibra e le certezze necessarie per cambiare il mondo, così decisi di provare a cambiare almeno il mio piccolo mondo e partii da Viareggio».
E scegliesti Londra perché?
«Se avessi potuto scegliere liberamente sarei andato a New York. Optai per Londra rispondendo a un annuncio di lavoro come "kitchen porter". Arrivai nell’ottobre del ’68, e fui preso come lavapiatti nel vecchio ospedale accanto a Westminster Bridge. Una delle prime cose che feci fu di iscrivermi ad una scuola serale di pittura al Sir John Cass Art College».
Sei lì da più di mezzo secolo, sei partito dalla gavetta e sei diventato un pittore affermato. Cosa percepisci oggi di questa Inghilterra così mentalmente insulare da apparire ingenua o folle?
«L’immagine di "separato in casa" è forse quella che meglio definisce la mia condizione, anche se quel paese è la terra dei miei figli. Quando però si abbandonano le proprie radici creiamo per noi stessi una frattura insanabile. A questo proposito fra i temi biblici cui ho lavorato ricordo le Figlie di Lot. Mi sembrava che quella storia restituisse il dilemma e le vicissitudini di chi è costretto a lasciare la propria terra».
Lot è l’uomo giusto che Dio decide di salvare prima di distruggere Sodoma e Gomorra.
«Certo, e tra l’altro quella vicenda così moralmente opaca è diventata un canone della storia dell’arte.
Numerosi artisti ne hanno voluto cogliere un aspetto.
Per me ha significato lo strappo dalle proprie origini.
La moglie di Lot trasgredisce gli ordini del Signore, si gira indietro per un’ultima volta e perciò è trasformata in una statua di sale. Le figlie ubriacheranno il padre per accoppiarsi incestuosamente allo scopo di dare continuità alla specie».
Vuoi dire che l’allontanamento dalla radici implica violenza?
«Guarda quello che accade con le odierne migrazioni, il Mediterraneo si è trasformato in un cimitero marino, la gente che arriva dall’Africa o dalla Siria o da più distante lo fa per allontanarsi dalle distruzioni, dalla guerra e dalla povertà. Cosa c’è di così sostanzialmente diverso dalla nostra emigrazione ottocentesca e novecentesca? Eppure non siamo disposti a equiparare quello che eravamo con quello che i nuovi migranti sono».
Il tuo percorso artistico va in controtendenza rispetto all’arte contemporanea di questo mezzo secolo. Come leggi la parola "originale"?
«Ho 75 anni e gli artisti della mia generazione hanno vissuto cambiamenti veramente epocali nel nome di un’originalità più presunta che vera. Cos’è originale? Il mercato da più di mezzo secolo detiene il monopolio di questa parola. È originale quello che si vende al prezzo più alto. Capisci?».
Spiegati meglio.
«L’attuale mercato dell’arte globale e i suoi manager sono riusciti ad imporre le loro contraddittorie offerte grazie essenzialmente a due fondamentali valori aggiunti: da un lato un rinnovato amore per il gigantismo, che è mediatico e riguarda le strutture sempre più colossali dei più importanti musei d’arte contemporanea, nella convinzione che il pubblico sia affetto da una forma di macrofilia. Dall’altro l’incremento esasperato del valore commerciale della singola opera d’arte di un particolare gruppo di artisti. Oggi se vuoi informarti sul destino di un’opera d’arte devi leggere il Wall Street Journal più che un bollettino d’arte».
Come hai vissuto tutto questo?
«Dici a livello personale? Un mercato lascia sul terreno vincitori e soprattutto vinti. Quando alla fine degli anni Settanta ho fondato insieme ad altri il gruppo della "Metacosa" — un movimento che aveva al suo interno artisti come Gianfranco Ferroni, Sandro Luporini, Giuseppe Biagi, Giuseppe Bartolini e altri — l’idea era di svolgere un lavoro sull’immagine, sulla natura ibrida di essere insieme evocativa del vero e semplice apparenza».
Nello stesso periodo nasceva la Transavanguardia. Dal confronto ne siete usciti schiacciati.
«Diciamo che la Transavanguardia ha lavorato in maniera dirompente dentro lo spirito del tempo di allora. Ha risposto con un codice provocatorio e volutamente eclettico alla catastrofe politica e culturale di quella fine del decennio. Una personalità multipla come Achille Bonito Oliva ha progettato perfettamente questo percorso. Quanto a me o a noi, la scelta è stata di accentuare la distanza dalla scena storica del momento. Abbiamo, se così posso esprimermi, lavorato "in remoto", pagandone le conseguenze in un mondo affamato di presente e di attualità. Le mie condizioni fisiche attuali rendono questo ricordo meno pungente».
Alludi alla tua malattia?
«Nel novembre del 2012 mi diagnosticarono quattro tumori al collo. Fui spinto in un baratro di confusione.
La prima decisione fu di smettere di lavorare. Mi ci vollero alcuni mesi per recuperare l’equilibrio necessario a coniugare l’idea della morte con quella di una gestione accettabile della rimanente vita. Sono stati anni infernali ma ne sono uscito vivo e a detta dei medici curato».
Poi cos’è accaduto?
«Nell’ottobre dello scorso anno, mentre ero in Italia con la famiglia hanno scoperto un nuovo tumore, questa volta ai polmoni. Mi hanno dato pochi mesi di vita, ma sono ancora qui, più confuso che mai. Mi ritrovo spesso a pensare alla vita che continuerà senza di me. Quali sono le conseguenze per tutti noi del vuoto che la morte crea? Io credo che la morte liberi l’immaginario di chi ci ha conosciuto. Quel compendio esistenziale che tutti noi siamo e che caratterizza il nostro rapporto con gli altri, offre infinite letture in chi ci ha amato».
È come se tu stessi elaborando il tempo finito di ciascuno di noi.
«Non lo so, mi viene in mente una bellissima lettera di David Hume: quando gli diagnosticarono un tumore terminale allo stomaco, raccontò serenamente il suo stato d’animo. La mia reazione al male è stata decisamente meno stoica».
Tra alti e bassi hai continuato a lavorare. Hai recentemente preparato la mostra sulla "Via Crucis".
Voglio dire: sei stato presente a te e al tuo lavoro.
«Quando mi sento meglio, la cupa immersione in un futuro senza di me si trasforma nuovamente in luce, magari flebile ma vitale. La mostra avrei dovuto inaugurarla i giorni precedenti alla Pasqua nello spazio museale della chiesa di San Pietro Martire ad Ascoli Piceno, la pandemia ha impedito che si realizzasse. Ora non so che accadrà, viste anche le mie condizioni. Ero in cura in un ospedale inglese, ma hanno sospeso la chemio per l’emergenza del contagio. E la mia tosse si è ripresentata. Penso al viaggio del mio Cristo in tutto non dissimile da quello che noi affrontiamo: nascita, affetti, amicizie, gioia, paure, rifiuti, condanne, sofferenze e poi la fine. Ho dipinto pensando a un tempo che racchiude tutti i tempi compresi i bei momenti che la vita ci regala».
Hai letto qualcosa che in questo periodo ti ha colpito?
«C’è una poesia di Marianne Moore che si intitola La verga di Esculapio, il bastone avvolto da un serpente è il simbolo della cura. E la Moore parla di Ippocrate e del modo in cui riuscì ad arrestare l’infuriare di un’epidemia e del virologo che lotta con variabili ancora inesplorate. Non so se fu scritta in memoria della spagnola o di qualche altro morbo. So che in quella poesia la medicina come cura è simbolo di rinascita. Ne sono stato immerso in questi anni, quasi prigioniero di protocolli e sperimentazioni. Ma è come se un tempo lacerato e ulteriore mi sia stato regalato.
Mi torna in mente ancora un verso della Moore, mi pare dedicato all’Italia: "Splendi sole che non falsifichi, splendi su questa scena sofferente"».