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 2020  maggio 30 Sabato calendario

Jean Giono in lotta con Melville

All’inizio degli anni ’30 Jean Giono incomincia a leggere Moby Dick: ne è così rapito da portare sempre il libro con sé durante le sue proverbiali passeggiate in collina, aprendo e leggendo a caso come si fa con la Bibbia. Nel 1936 coinvolge Lucien Jacques e Joan Smith in un’opera di traduzione che vedrà la luce tre anni dopo, nei raffinati Cahiers du Contadour. Intanto, insieme ad altre scritture, Giono ha tenuto una specie di diario di lavoro con l’intenzione di ricavarne un saggio introduttivo: sfuggitogli presto di mano, questo libro parallelo assumerà un carattere sempre più narrativo, e diverrà Pour saluer Melville (1941), ora tradotto in italiano da Guanda con il titolo Melville. Un romanzo.
Di che romanzo si tratta? Di una specie di psicodramma metafisico nel quale Giono dialoga direttamente con i propri personaggi, riflettendo sulle cose ultime: la vita, la morte, l’amore, l’arte. Come nella maggior parte dei suoi libri, dietro la limpidezza della sua prosa si coglie la pensosità di sant’Agostino, di Montaigne, di Pascal, e non è un caso che l’invenzione più forte del libro veda Melville impegnato ripetutamente a lottare con l’angelo come Giacobbe. Lottare con l’angelo significa in questo caso non accontentarsi mai, non scendere a compromessi (in primis editoriali), cercare il proprio destino in un libro e nei suoi personaggi, che non possono non essere Achab e Moby Dick, perché «l’uomo desidera sempre un oggetto mostruoso. E la sua vita assume valore soltanto se la consacra intensamente a tale inseguimento». Così, arrivato a Londra nel 1849 per discutere con i propri editori, e coinvolto in una mondanità europea che non gli appartiene ( e che implica anche una storia d’amore cui francamente Giono concede troppo spazio, dando al lettore l’impressione di essere stato ingannato), Melville si riscuoterà affrontando l’angelo per l’ennesima volta, e tornando in America con le idee chiare: recuperare il tempo perduto, essere letterariamente tutto e soltanto di quel mare su cui da tempo aveva cessato di navigare, far propria l’ossessione di Achab «per perdere o per guadagnare tutto». Appena due anni dopo, così, uscirà la prima edizione di Moby Dick.
Inevitabile che Giono voglia essere della partita: gli basta osservare le sue colline ondulate «per sentire gonfiarsi tutto intorno la vita multiforme dei mari», e leggere Melville e poi tradurlo significa lasciarsi usurpare: «Spesso alzando gli occhi dalla pagina mi è sembrato che Moby Dick soffiasse lì davanti, oltre la schiuma degli ulivi, nel fermento delle grandi querce», sì che passando per Melville si arriva subito ad Achab: «indossando il suo cuore al posto del mio, trascinavo anch’io faticosamente le mie ferite nel risucchio di un’enorme bestia degli abissi». Del resto, recita una chiosa di sapore pascaliano, «ognuno ha i suoi oceani e i suoi mostri personali». Non solo, ma la stessa opera di traduzione è rappresentata in termini balenieri: «La frase di Melville (…) è come una balena», e «quando è arpionata bisogna seguirla; quando si inabissa bisogna aspettarla e quando emerge di nuovo bisogna attaccarla di nuovo». Dodici anni dopo il romanzo di Giono, del resto, un altro narratore avrebbe avuto lo stesso atteggiamento: mi riferisco a Ray Bradbury, che lavorando alla sceneggiatura di Moby Dick per il film di John Huston cadde in una vera e propra trance euforica: «Mi avvicinai allo specchio sopra la macchina da scrivere e annunciai: Sono Herman Melville!» ( e anche nel suo caso il diario di lavoro si tramutò in narrazione: Verdi ombre, balena bianca, pubblicato da Fazi nel 1998). A confermare il sospetto che questi corto-circuiti e questi invasamenti non siano una coincidenza, da ultimo, il libro Leviatano, ovvero la balena di Philip Hoare (Einaudi 2013). Eppure alla fine, con un’improvvisa sterzata, Giono rinnega l’idea che melvillizzarsi significhi avere l’oceano come unico orizzonte: lo stesso Melville, anzi, «non è uno scrittore del mare più di quanto gli altri siano scrittori di terra. È Melville, Herman Melville. Il mondo di cui esprime le immagini è il mondo di Melville», al punto da giganteggiare sopra la sua stessa balena: «i suoi titoli sono in realtà dei sottotitoli; il vero titolo per tutti i suoi libri è Melville, Melville, Melville e ancora Melville, e sempre Melville». Un’idea, questa, che non posso condividere fino in fondo ( basti pensare a opere lontanissime da Moby Dick e fra loro come The confidence man, Bartleby o Pierre), ma che ha una propria nobiltà nel non voler risolvere la grandezza di un autore nel suo tema principale. È quanto dobbiamo allo stesso Giono, che ha patito, in vita e in morte, la riduzione a cantore bucolico della Provenza e del Midi, come se non avesse avuto anche lui un angelo con cui lottare.