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 2020  maggio 30 Sabato calendario

Intervista al Nobel per l’Economia Esther Duflo

La recessione è quando il tuo vicino perde il lavoro, la depressione è quando lo perdi tu». L’edificio del Massachusetts Institute of Technology (Mit) dove ha avuto luogo la prima parte di quest’intervista, sembrava ancora estraneo, quel 12 marzo, alla tempesta globale scatenata dalla pandemia di coronavirus. Gli studenti giravano per i corridoi con aria spensierata nonostante qualche mascherina. Arrivati nell’ufficio della professoressa Esther Duflo (Parigi, 1972), il saluto a un metro di distanza confermava l’instabilità di quel momento. I giorni successivi tutto iniziò a sgretolarsi e anche quello strano incontro sembrò improvvisamente impossibile.

Il Sars-Cov-2 è un virus nuovo del quale si sa ancora poco e Duflo è un’economista ossessionata dalle prove. Ha vinto il Nobel all’economia nel 2019 insieme ad Abhijit Banerjee e Michael Kremer per il suo focus sulla lotta alla povertà, elaborato su evidenze scientifiche. Nel 2003 ha creato, insieme a Banerjee, il suo compagno, un laboratorio, il J-Pal presso il Mit, che progetta strategie con un metodo simile a quello impiegato negli esperimenti clinici. Nel loro ultimo libro, Good Economics for Hard Times (Penguin Books) smantellano una serie di teorie precostituite riguardo l’economia e come quest’ultima può aiutare a risolvere i nostri problemi.
L’economia è caduta a picco a causa della pandemia, perché quasi nessuno si aspetta una drastica ripresa?
«Finché non avremo un vaccino o un farmaco che funzioni abbastanza bene, non potremo aspettarci un recupero completo. Una volta ottenuto il vaccino, ci sono motivi per essere ottimisti. La grande differenza tra questa crisi e quella del 2008 o la depressione del 1929 è che il collasso non è dovuto a una crisi del sistema bancario. La situazione è più simile a un disastro naturale o a una guerra e l’esperienza delle guerre ci insegna che i paesi recuperano abbastanza rapidamente. Lo abbiamo visto in Germania nella seconda guerra mondiale o in Vietnam dopo la guerra. Una volta che la gente sentirà di poter uscire e fidarsi della propria stabilità finanziaria, ci risolleveremo».
Quando una recessione si trasforma in depressione? Come si può evitare di passare da una all’altra?
«Secondo il dizionario Merriam-Webster, c’è una citazione, probabilmente apocrifa, attribuita a Truman che dice: “La recessione è quando il tuo vicino perde il lavoro, la depressione è quando lo perdi tu”. In altre parole, una depressione è una recessione più dura che è cresciuta come una valanga. Per evitarla è essenziale sostenere le entrate delle persone e, più importante, mostrar loro che ne disporranno nel futuro. I paesi ricchi hanno speso molto denaro per stimolare l’economia — il 10% del Pil nel caso degli Stati Uniti — però il rischio è che parte di quel denaro sia impiegato per il recupero degli azionisti di aziende riscattate, come le compagnie aeree. Questo non servirà per aiutare un’economia di fronte a una crisi della domanda. Ciò di cui abbiamo bisogno è mantenere i posti di lavoro e gli stipendi».
Ci saranno cambi strutturali o almeno molto duraturi? Ci sarà un
nuovo ordine economico?
«C’è una discussione aperta riguardo il commercio negli Stati Uniti e in Europa. C’è anche qualcuno che crede che, se le catene di rifornimento fossero locali, non avremmo sofferto la mancanza di alcuni beni (come ventilatori e mascherine), molti dei quali si producono in Cina. Però questo fa dimenticare che, a seguito di una chiusura iniziale delle esportazioni, la Cina ha aumentato la produzione e rifornisce tutto il mondo. Immaginiamolo al contrario: se ogni paese dipendesse dalle proprie fabbriche che accadrebbe se si rompessero le catene di approvvigionamento internazionali? Le aziende impareranno che è pericoloso dipendere da un solo fornitore di un solo paese e quindi diversificheranno la produzione. Questo può rappresentare una grande opportunità per i paesi in via di sviluppo».
Come crede che possa cambiare il mondo del lavoro?
«Con la possibilità che le persone si ammalino, soprattutto se le ammassano in cattive condizioni, i dirigenti e gli azionisti punteranno sull’automatizzazione. Forse non possiamo fermare questa tendenza, ma possiamo aiutare i lavoratori ad adattarsi al cambiamento e a trovare altri lavori».
Che effetto si aspetta dalla lotta alla povertà?
«Nei paesi in via di sviluppo molti si trovano sulla soglia della carestia e possono cadere facilmente nella trappola di una povertà dalla quale sarà difficile uscire. Questo potrebbe annullare decadi di progresso».
Lei ha iniziato studiando storia. Perché è passata all’economia?
«Ho creduto che fosse più utile. Mi interessava cambiare il mondo o aiutare la progettazione delle politiche».
Lo sa che gli storici si offenderanno perché dice che non cambiano il mondo…
«Svolgono un ruolo molto importante nel dare una forma alla narrazione e anche questo cambia il mondo, ma non direttamente e io avevo bisogno di una scorciatoia».
La lotta alla povertà ha vissuto grandi progressi nelle ultime decadi. Crede che esista un limite a partire dal quale per migliorare sono necessari sacrifici che il mondo ricco non è disposto a fare?
«Non credo. I poveri hanno così poco denaro che non hanno bisogno di molto per essere più ricchi. Era plausibile raggiungere l’obiettivo dell’eliminazione della povertà estrema nel 2030 (la data fissata dagli Obiettivi di sviluppo sostenibile). Ora, però, con la recessione globale e la pandemia potrebbe non accadere. Anche se dovessimo riuscirci, espanderemo l’obiettivo. Una volta ottenuto che nessuno viva con meno di un dollaro, penseremo che nessuno debba vivere con meno di due e, più avanti, con meno di cinque».
Il focus del suo lavoro, il metodo dell’esperimento clinico applicato all’economia, ha smantellato alcune idee preconcette.
«Sì, per esempio esiste l’idea che se aiuti qualcuno, fai in modo che lavori di meno. Non è così. Se dai una mucca a una famiglia povera, la famiglia lavorerà di più prendendosi cura di quella mucca. Il regalo non solo non rende pigri ma dà un benessere e una sicurezza che rende più produttivi».
Nel suo libro cita la storia di una pasticceria che rifiuta torte nuziali a coppie dello stesso sesso, perde molti clienti, diviene popolare per altri. Cosa vuole significare?
«La teoria direbbe che non ci dobbiamo preoccupare perché chi discrimina non sopravvive nel mercato, ma non è vero perché le coppie gay possono smettere di comprare ma la destra cristiana o qualcun altro lo farà. Non si può sperare che il mercato da solo trovi una soluzione a tutto».
Non esiste una ricetta unica per tutti i paesi in via di sviluppo. Perché non si può copiare il modello cinese?
«Che bisognerebbe fare? Iniziare una rivoluzione culturale e ammazzare 50 milioni di persone durante una carestia? Anche se volessimo isolare un solo aspetto che ha funzionato in Cina, non ci sono prove che potrebbe funzionare in un altro paese. Credo che gli economisti siano arrivati alla conclusione che non sanno come influenzare la crescita dell’intera economia. Nel libro diciamo che la crescita non implica il benessere. Se ciò che preoccupa è la povertà, non è la crescita ciò che più deve interessare, ma le entrate dei poveri, la loro educazione».
Una parte delle sue analisi, incentrata sulle politiche, ricordano il famoso libro “Perché falliscono i paesi”, di Daron Acemoglu e James A. Robinson, sulle origini del potere, della prosperità e della povertà. Non sono le risorse naturali, non è la geografia, sono le politiche... Queste sono le loro conclusioni. Lei è d’accordo?
«Sì, loro sono storici e la loro idea è più a lungo termine, come la storia influenza le istituzioni politiche e queste a loro volta influenzano il resto… Il nostro lavoro si basa più nel dire: con i condizionamenti storici che abbiamo ereditato, c’è qualcosa che possiamo fare? I paesi hanno limitazioni politiche ma all’interno di questi limiti, è molto ciò che possono fare».
Solitamente si dice che l’azione dei governi, in realtà, non è così cruciale per i cicli economici.
«Non è cruciale per la crescita. Lei segue dinamiche proprie, ci sono molti fattori che la caratterizzano. Un governo può fare ben poco per prevenire un crash della Borsa se sta andando verso un crash. La crescita non è molto controllabile dalle politiche, né nei paesi ricchi né in quelli poveri. Ciò che dipende dalle politiche è il benessere».
© El Pais/Lena