ItaliaOggi, 30 maggio 2020
Orsi & tori
Ci voleva Vittorio Colao da Londra e la sua task force per accettare quanto questo giornale e l’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina, stanno sostenendo da anni e cioè che per tagliare il debito, quindi per acquisire credito presso gli investitori, lo Stato e gli enti pubblici devono mettere in uno o più fondi gli immobili che furono passati nell’attuazione del federalismo dallo Stato centrale allo Stato periferico per un valore di oltre 400 miliardi di euro. Valorizzarli e cedere quote del fondo o dei fondi ai risparmiatori italiani che possono pagare con Btp, che lo Stato potrà così annullare tagliando il debito. Che poi parte dei ricavi possa anche essere utilizzato per lo sviluppo del Paese, poco cambia, perché se si taglia il debito se ne può fare altro, e avendo dimostrato la capacità dell’Italia di tagliarlo, costerà assai meno con l’inevitabile e conseguente riduzione dello spread. Ci voleva Colao perché nel testo, ancora non definitivo, del piano preparato dalla Task force per il rilancio dell’Italia, che MF-Milano Finanza e l’agenzia MF Dow Jones hanno potuto leggere e rivelare venerdì 29, si prevede proprio la valorizzazione degli asset immobiliari dello Stato centrale e dello Stato periferico.
Si legge nel piano, dove opportunamente il fondo è battezzato Fondo per lo sviluppo, che lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni al Fondo conferiranno immobili, partecipazioni in società quotate e titoli. È previsto che il fondo venga gestito da Cdp. Le quote del fondo dovrebbero essere messe a garanzia di crediti erogati alle imprese e dunque assegnate alle banche e/o vendute agli investitori internazionali o alla stessa Bce. Le somme raccolte è previsto che vengano investite da Cdp nell’industria 4.0 e nelle imprese ad alto tasso di crescita che saranno identificate fra quante avranno investito in ricapitalizzazione, m&a e innovazione. I tecnici della Task force non escludono che, a tendere, le quote del Fondo possano essere investite anche dal pubblico retail.
Benissimo, almeno la Task force ha capito che lo Stato nel suo complesso deve fare ciò che fa qualsiasi azienda, o qualsiasi privato, che possiedono patrimonio ma hanno debiti e sono illiquidi. Fanno la cosa più ovvia: vendono una parte del patrimonio. Patrimonio ha la stessa radice della parola patrimoniale. E se per alcuni la tentazione è proprio quella di mettere la patrimoniale per poter mettere una pezza all’iperindebitamento, la vendita, o più propriamente la valorizzazione del patrimonio pubblico, è stato concepito e proposito da questo giornale e da Banca Intesa Sanpaolo proprio come antidoto, giusto, doveroso, alla patrimoniale. La patrimoniale, che per altro già c’è sotto varie forme dai tempi del governo di emergenza presieduto dal professor Mario Monti (una patrimoniale nascosta in mille rivoli, proprio per l’emergenza del momento), è e sarebbe una operazione iniqua. Iniqua, perché in Italia esiste già una tassazione iperprogressiva, quindi chi è ricco ma onesto paga già anche per chi è povero. Per cui, chi pensa alla patrimoniale in termini di equità commette il più grave degli errori. Ciò che lo Stato deve fare è combattere l’evasione: il direttore generale dell’Agenzia delle entrate, Ernesto Maria Ruffini, ha indicato l’entità enorme dell’evasione: oltre 100 miliardi all’anno. Chi ha in testa la patrimoniale si preoccupi dell’evasione: far pagare le tasse a chi non le paga, questa sì che è equità e giustizia.
Da tutto ciò si comprende che se lo Stato non sa far pagare le tasse e non sa spendere, non può mettere ulteriormente le mani nelle tasche dei cittadini. E nel progetto del Fondo o dei fondi, dove devono confluire in primo luogo gli immobili ma anche alcune partecipazioni che possano garantire liquidità per valorizzare gli immobili, è l’atto più equo e giusto che lo Stato, attraverso il governo, possa attuare. Quindi la Task force ha colto nel segno, anche perché si va a valorizzare immobili che erano dello Stato, che sono passati agli enti locali e che in molti casi per questi enti sono un puro costo perché non sanno gestirli.
Ci sono però almeno due dettagli di quanto abbiamo letto nel piano che vanno corretti per raggiungere il massimo dell’equità e della giustizia, obiettivo che un governo non può permettersi mai di non perseguire.
Il primo punto riguarda chi possa comprare le quote dei fondi dove ci saranno immobili straordinari che fanno parte del patrimonio, anche culturale, dell’Italia. In primo luogo, l’offerta delle quote dei fondi va fatta agli italiani. E per questo fin dall’inizio della campagna di questo giornale per il Tagliadebito abbiamo sostenuto che il fondo doveva e deve chiamarsi Fondo degli Italiani.
Gli italiani vengo descritti da molti cittadini degli altri Stati, e in particolare dai tedeschi, come la popolazione più ricca dell’Unione europea e come i meno attenti alle spese o dissipazioni dello Stato. Sono due verità, ma disporre di più ricchezza pro capite rispetto agli altri cittadini della Ue non può essere e non deve essere vissuto dagli stessi italiani come una colpa. Deve essere invece un orgoglio, perché la ricchezza degli italiani è il frutto di una grande capacità di risparmio: quando i tedeschi viaggiavano in Mercedes, gli italiani si accontentavano della Topolino, della 500, della 600 normale e multipla, per le famiglie più numerose. Compito dello Stato, attraverso il governo, è quindi quello di difendere il risparmio e anzi di valorizzarlo. Concedendo appunto una sorta di prelazione sulle quote del Fondo o dei fondi dove viene messa una parte del patrimonio immobiliare e mobiliare pubblico dell’Italia.
Il secondo punto che non è ideale è quello di dare in garanzia le quote del fondo.
Il problema del Paese è l’enorme debito pubblico, assieme alla inefficiente macchina dello Stato e al dominio della stessa da parte di burocrati inefficienti che hanno, come giustificazione, soltanto quella di doversela vedere con 165 mila norme, che essi stessi moltiplicano ogni volta che scrivano il testo di una nuova norma e soprattutto (almeno la legge è approvata da un Parlamento eletto) quando emanano i cosiddetti decreti o regolamenti attuativi.
Il ricatto che il mondo intero fa all’Italia è il debito eccessivo, che si traduce in un costo del denaro esagerato rispetto al costo degli altri Paesi. Un costo che drena risorse che lo Stato dovrebbe invece destinare allo sviluppo e a un abbassamento della pressione fiscale. Allora, in primo luogo, va tagliato il debito e quindi, invece di fare altro debito, la vendita di patrimonio pubblico deve servire a ridurre l’indebitamento. Dimostrando la capacità di ridurre il debito lo spread scenderà, perché il mondo avrà la dimostrazione materiale che l’Italia ha la capacità di ripagare quanto ha raccolto con i titoli di Stato.
Sembra una sottigliezza, ma non è così. Restituendo parte del debito attraverso la vendita agli italiani di patrimonio pubblico attraverso il Fondo degli italiani, si libereranno risorse da poter investire e, soprattutto, il nuovo debito che andrà fatto per forza di cose costerà molto meno. Non ci si deve dimenticare che alla Germania il mondo presta denaro a tasso negativo, che rimarrà tale a lungo visto che a questi livelli siamo arrivati con la recessione. Recessione che continuerà.
Tutto questo per dire che a giudizio di chi da anni sostiene ciò a cui ora si arriva come proposta della Task force, la via maestra è di fare immediatamente il Fondo degli italiani, vendendo in primo luogo agli italiani le quote relative, come strumento per far calare lo spread e per dimostrare al mondo che l’Italia è credibile.
Se non si vuole essere manichei, un’ipotesi vincente può essere quella di fare più Fondi immobiliari e misti, per un importo superiore a quello indicato nel Piano della task force, cioè non 100, né 200, ma 300 miliardi, visto che il solo valore degli immobili trasferiti agli enti locali per il federalismo fu calcolato in oltre 400 miliardi. Con 300 miliardi, se ne possono usare 150 per tagliare il debito e altri 150 per finanziare lo sviluppo.
A ciò comunque si arriva per non aver seguito immediatamente il consiglio di Mario Draghi che sul Financial Times e anche, sia pure indirettamente, su questo giornale aveva suggerito di fare immediatamente grandi emissioni di titoli per inondare il sistema economico e le famiglie di liquidità. I titoli avrebbero potuto essere anche a 30 anni e la Bce li avrebbe comprati tutti, sia pure sul mercato secondario. Quello sarebbe stato debito di guerra, come quello della Germania dopo la Seconda guerra mondiale. Prima ancora di cominciare a pagare aveva già ottenuto uno sconto del 50%. Il senso del suggerimento di Draghi era ed è che la liquidità immediata avrebbe abbassato il costo della crisi. Per esempio, guardando, giustamente, all’Europa, si dovrà aspettare più di un anno per avere il fondo perduto e il prestito da complessivi 175 miliardi. Ormai il consiglio di Draghi non è stato seguito e il costo della crisi sarà altissimo.
Il presidente Giuseppe Conte, il serio ministro Stefano Patuanelli parlano correttamente e ripetutamente di semplificazione. Il più serio banco di prova della semplificazione è creare in pochissimi mesi il Fondo degli italiani e venderne le quote agli italiani, chiedendo loro di pagare con titoli di Stato, che lo Stato, incassandoli, potrà annullare, riducendo il debito. Non c’è un minuto da perdere.
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Ma proprio per i ritardi accumulati, il governo deve pensare a come salvare, senza costi, i bilanci delle società che per le norme del Codice civile rischiano di perdere il capitale e quindi di morire, creando inevitabilmente una grave disoccupazione. La soluzione c’è e Nicola Bedin, colui che in un anno ha risanato il S. Raffaele e ora ha attività da imprenditore nel settore delle cliniche ed è fresco presidente designato per Snam, l’ha presentata su queste colonne. La soluzione, a costo zero per lo Stato, è il congelamento per un anno degli ammortamenti. Questa idea, non convince molto lo Oic (Organismo italiano di contabilità) che fissa le regole (che non sono leggi) per la compilazione dei bilanci. La tesi è che con il congelamento degli ammortamenti non è più possibile avere una perfetta comparazione fra i bilanci di chi l’ha applicata e chi no. Intanto, si può osservare che chi non la applica evidentemente è perché non ne ha necessità. Ma si sa che questo 2020 è un anno drammatico e quindi per avere una comparazione rimane sempre il parametro dell’ebitda, che per altro, dagli analisti, è il parametro più usato per valutare le società. L’Oic, composto da professionisti serissimi e preparati (basti dire che il presidente è Angelo Casò), propone altre strade, ma la più semplice e sicura è il congelamento degli ammortamenti per i bilanci 2020. Spetta quindi al governo e al Parlamento decidere. Come dicono all’Oic, i loro criteri non sono legge e il parlamento è sovrano.