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 2020  maggio 30 Sabato calendario

Sartre nel cuore della rivolta armato di taccuino

Jean Paul Sartre lascia da parte la teoria e diventa l’illustre cronista della rivolta di Parigi: lo fa nelle giornate fra il 19 e il 23 agosto del ’44 quando, dopo lo sbarco in Normandia, i tedeschi furono costretti a difendersi e di fatto a preparare l’evacuazione della città che Hitler, com’è noto, voleva fosse rasa al suolo. Il quarantenne e già ben noto filosofo - aveva pubblicato in piena occupazione L’essere e il nulla - si lanciò per le strade, possiamo immaginare armato di taccuino, intanto come «resistente» - era membro del Comitato nazionale del fronte per il teatro - ma anche su invito di Albert Camus, caporedattore della rivista Combat. Il testo, raccolto poi nella prima edizione di Situations, e di cui riportiamo a fianco un estratto, è un esempio sorprendente di scrittura in presa diretta, vivacissima, di una narrativa in sintonia con la realtà pulviscolare dei fatti. 
Quando la Resistenza proclama l’insurrezione ancora non si sa nulla – ci si limita a sperare e confidare – sui tempi dell’arrivo della Terza Armata americana e sulla divisione blindata del generale Leclerc che secondo gli accordi fra De Gaulle e gli Alleati sarebbe dovuta essere la prima a entrare in Parigi. La situazione è caotica, ma già si sta celebrando una sorta di festa. Si spara, si muore, e la gente continua ad aggirarsi per le strade come se niente fosse, eccitata e fiera di partecipare a un momento storico, di cancellare la vergogna della capitolazione, dell’occupazione, di Vichy. Sartre si comporta esattamente come i parigini. Non combatte, ma gira la città in bicicletta o a piedi, da una parte e dell’altra della Senna, dorme negli hotel, si rifugia in casa di amici, organizza gli attori dei teatro occupato, si fa persino scappare, con molto dispiacere, una spia tedesca. 
Vive in una situazione di eccezione e forse di ebbrezza. In qualche modo il filosofo si ritrova come Fabrizio del Dongo a Waterloo, nel cuore della battaglia ma senza poter cogliere il senso globale di ciò che sta accadendo (però a differenza del personaggio di Stendhal eviterà di gridare soddisfatto «finalmente! l’ho visto il fuoco, Ora sono un soldato davvero»). Lui, pur con la sua retorica fiammeggiante, sta aderente al dato empirico; descrive, mette insieme i pezzi di un mosaico a venire. Ricorda, se mai, l’Orwell di Omaggio alla Catalogna, nelle pagine sugli scontri fra anarchici e comunisti a Barcellona. E ancora non sa, né scriverà a cose fatte, che i primi a mettere piede a Parigi, con il generale Leclerc, furono proprio i soldati della Nueve, compagnia formata da veterani delle guerra spagnola. 
A lui interessa, com’è giusto, la Francia nel momento in cui supera finalmente la lunga vergogna, tema trasversale non solo nella sua opera ma proprio in questa raccolta di scritti pubblicati dal Melangolo, tutti attinenti l’occupazione, il collaborazionismo, l’antisemitismo e naturalmente la guerra. Negli altri (ma non nel ritratto di Drieu La Rochelle, durissimo, feroce, e implacabile: una condanna umana e storica) rivediamo a tratti il Sartre più ideologico, e in quel momento molto simpatetico con l’Urss. In un testo dove ancora ragiona sulla insurrezione di Parigi, costruisce ad esempio una sorta di sillogismo un po’ fazioso, finendo per dare il merito del successo, seppure indiretto, ai russi: se infatti «non avessero impegnato e poi sconfitto la maggior parte delle divisioni tedesche», gli americani non sarebbero arrivati sulla Senna. Poi fa un piccolo passo indietro e conclude che quanto è accaduto «è stato il frutto dell’azione comune».
Sono affermazioni, queste, tanto per tornare al parallelo con la Spagna, che mandavano in bestia George Orwell. Il quale, a proposito di un importante libro sartriano sull’antisemitismo, Riflessioni sulla questione ebraica, pubblicato nel ’46 e di cui qui leggiamo quello che sarebbe divenuto il primo capitolo, dopo averlo ricevuto scrisse piccato (al suo editore) che considerava il filosofo «un pallone gonfiato». Esagerava, ma il saggio va letto con la dovuta attenzione: a partire dalla tesi forse un po’ schematica che in Francia l’antisemitismo è stato sempre caratteristico della piccola borghesia. Qualche episodio recente, dell’epoca dei gilet gialli, sembra non dargli del tutto torto.