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 2020  maggio 30 Sabato calendario

Le lettere di Ungaretti

Quando nel 1967 Eugenio Montale venne nominato senatore a vita, Giuseppe Ungaretti ebbe una reazione di disappunto che, come ricorda il suo massimo biografo, Leone Piccioni, si concretò in una beffarda cantilena: «Montale senatore…Ungaretti fa l’amore». La polarità fra i due non poteva essere espressa meglio. Se l’uno aveva confessato e teorizzato il vivere «al cinque per cento», l’altro viveva, come era sempre vissuto, al cento, al mille. Abbarbicato alla vita in tutti i suoi aspetti, bulimico di esistenza, poesia, amore, arte e avventure, e non solo dello spirito. A cinquant’anni dalla scomparsa (nato ad Alessandria d’Egitto nel 1888, morì a Milano nella notte tra il 1 e il 2 giugno 1970) la sua figura di intellettuale e poeta sembra essersi un poco appannata nel mondo accademico; ma non nella scuola e nell’interesse dei lettori.
Il Meridiano Mondadori delle sue poesie ha superato da tempo le centomila copie, per non parlare ovviamente delle edizioni economiche e scolastiche. L’immagine del «vecchissimo ossesso» è un’icona ben nota, sorriso e barba bianca. La sua lezione, ad onta di un certo conformismo critico-giornalistico forse neppure maggioritario che salva solo il grande exploit delle prime poesie e guarda con sufficienza al presunto «ritorno all’ordine» a partire dal Sentimento del tempo, è viva più che mai, e basta leggere i nostri poeti anche giovanissimi. E Mondadori, che ha appena mandato in libreria una nuova edizione della sue celebri traduzioni da William Blake, sta preparando, il traguardo è l’autunno, una grande raccolta del ricchissimo epistolario, con molti inediti, a cura di Francesca Bernardini, italianista della Sapienza di Roma. 
Il titolo, Una vita attraverso le lettere 1909 – 1970 riecheggia quello che Ungaretti volle per la sua stagione poetica, Vita d’un uomo. E la corrispondenza esalta proprio la personalità di un uomo sempre alla ricerca: non solo negli anni giovanili, prima in Egitto poi in Francia dove si laureò e strinse tutte le relazioni possibili. Là, oltre a scrivere (distrattamente) per Il Popolo d’Italia, si legò soprattutto con Guillame Apollinaire (senza saperlo amarono contemporaneamente, corrisposti, la stessa donna; Ungaretti ne fu informato dall’interessata più di vent’anni dopo) e Jean Paulhan, direttore della Nouvelle Revue Française, destinato al ruolo di co-protagonista per lo scandalo che provocò nel ’54 la licenziosa Histoire d’O a firma Pauline Réage e con sua prefazione (dietro lo pseudonimo dell’autrice si nascondeva la donna – molto stimata intellettuale ed ex partigiana - con cui aveva da tempo una lunga storia). 
Non smise mai di scoprire, capire, entusiasmarsi. Negli Anni Cinquanta incoraggia per esempio il giovane Edoardo Sanguineti e lo ammonisce però che «lo sperimentalismo non può essere fine a se stesso». Più tardi incontra Allen Ginsberg (in una lettera a Paulhan lo definisce «un po’ guitto»). In America nel ’68, mentre quelli della Beat Generation lo festeggiano, non si nega un tiro di marijuana, e poi manda a dire a Piccioni che «non gli aveva fatto nulla», mentre era stato invece conquistato da una «voluttuosa ebrea».
Letteratura e amore sono le sue stelle polari. I viaggi, la sua seconda natura. E proprio a questo proposito l’epistolario dovrebbe fare definitiva luce su quello, lungo, attraverso il fascismo: nato da una grande ammirazione (non del tutto contraccambiata) per Mussolini a partire già dal 1914, che gli fu utile per aiutare, negli Anni Tenta, qualche amico antifascista o ebreo; e a farsi liberare ogni volta – furono parecchie – in cui veniva fermato per i più svariati motivi, per esempio per aver criticato pubblicamente le leggi razziali. 
Il suo «patriottismo da figlio di emigrati» che lo aveva portato nelle trincee della Grande Guerra – ci spiega la professoressa Bernardini – era diventato nazionalismo. E una lunga partentesi brasiliana (ottenne una cattedra a San Paolo dal ’37 fino al ’42), seppure ogni anno interrotta da qualche mese in patria, non gli permise forse di cogliere in pieno la parabola del regime. Commise i suoi errori: come gran parte degli italiani. Si ritrovò così negli anni peggiori accademico d’Italia e in cattedra a Roma per chiara fama, e nel dopoguerra fu sottoposto a un procedimento di epurazione. Ne uscì bene, ma fu un trauma. Restano biglietti inediti che forse avrebbe voluto dimenticare, per esempio lettere in cui scrive perentoriamente agli amici, negli Anni Trenta: «da bravo fascista so usare i pugni». Lo dice però solo quando si infuria per attacchi velenosi – e per nulla antifascisti - a mezzo stampa. Uno dei primi, nel ’27, davvero volgare, era firmato «Giacomino». Tempo dopo si scoprì che l’autore era Cesare Zavattini.